“Riparo”: un racconto di vita vissuta!

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Di Silvana Ranza

Adriana Tomasello è un’artista che spesso organizza eventi di arte relazionale, dove l’arte diventa un mezzo per creare relazioni e scambi tra le persone. Nei mesi scorsi decise di organizzare un evento dal tema “Riparo” invitando vari amici a prendere parte con dei racconti sulle parole che hanno rappresentato un riparo nella loro vita. Invitò anche me, e per questo le sono molto grata. Mi chiese di preparare un testo scritto che sarebbe stato conservato come parte integrante dell’evento stesso. Accettai con entusiasmo. Ero molto emozionata all’idea di condividere il mio racconto con gli altri partecipanti e di ascoltare, a mia volta, le loro storie, scoprendo come le parole possono avere il potere di creare un riparo per ognuno di noi. L’evento prometteva di essere un’esperienza unica ed emozionante, dove l’arte e la parola si incontrano per creare una connessione tra le persone. Tanti ricordi si affacciarono alla mia memoria e pian piano ricordai, in un frammento della mia vita, riguardante me e mio padre, di aver colto il valore del “riparo”.

La vicenda risale a quando ero poco più che diciottenne, fresca di patente. A quel tempo mio padre aveva 63/64 anni e non aveva la patente, non l’aveva mai presa e di questo si rammaricava molto. Lavorava in Svizzera e per raggiungerla si spostava in macchina con dei colleghi che dalla provincia di Bergamo, luogo di residenza, andava in territorio elvetico a lavorare. La distanza era tale che partivano il lunedì mattina all’alba per essere sul posto di lavoro alle 8,00 e tornavano poi il venerdì sera tardi dopo aver lavorato l’intera giornata.  A quel tempo si poteva andare a lavorare in Svizzera solo se si era in buone condizioni fisiche, e a tal proposito le autorità di frontiera organizzavano degli hub con medici specialisti per valutare scrupolosamente le condizioni sanitarie dei richiedenti lavoratori e solo se sani ottenevano il permesso di entrare.

Poter lavorare in Svizzera era una buona cosa, perché lo stipendio era, oltre che assicurato, decisamente più alto rispetto all’Italia. Inoltre facendo vita da frontaliero la convenienza era maggiore in quanto si guadagnava in base al tenore di vita elvetico e si spendeva secondo il più basso tenore italiano. In questo modo mio padre riusciva ad assicurare alla nostra famiglia tutto ciò di cui avevamo bisogno senza troppe rinunce. E così anch’io ero stata beneficiata da questa situazione. Anche se non avevo mai realizzato i tanti sacrifici fatti da mio padre. Ritenevo abbastanza normale che lui il lunedì mattina presto presto prendeva la sua valigia, salutava la mamma e insieme a suoi colleghi partiva alla volta del Canton Ticino per tornare poi a fine settimana con un’aria decisamente stanca. Non avevo realizzato la pena di lasciare nel cuore della notte il suo caldo giaciglio e tutti i suoi affetti più cari e partire da solo per una settimana senza che nessuno gli facesse trovare in piatto caldo a fine giornata, un letto rifatto, o una parola di conforto e di incoraggiamento.

Ero giovane e nella mia mente si affollavano pensieri diversi. Avevo voglia di futuro, di vita, di conoscenza, volevo girare il mondo, avere un mio lavoro, affrancarmi dalla mia famiglia e soprattutto cercarmi un posto nel mondo tutto mio. Di mio padre e mia madre vedevo molte cose, ma non tutte, alcune dinamiche le davo per scontate. Anche tante delle loro fatiche mi sembravano giuste, come se fossero scelte da loro. Nel frattempo, mi ero presa la patente e una “due cavalli”. Ero felicissima, anche se non era proprio una macchina quella che avevo preso, era più un cartone animato per come si muoveva e per come si attivavano tutte le cose all’interno di quella buffa automobile. Quando prendevo un curva, se non deceleravo in modo opportuno, rischiavo di cappottare perché tutto il volume subiva gli effetti della fisica e si capitollava in modo centrifugo dal lato della sterza….I finestrini laterali erano tagliati a metà in orizzontale e per aprirli si spingeva verso l’esterno la metà mobile fino a che si incastrava con il pezzo fisso posto sopra. Le marce poi erano una barzelletta: usciva un perno dal centro del cruscottino, vicino al volante, e con una certa abilità si doveva manovrare per incastrare le giuste marce….La velocità di crociera non era mai elevata, penso che in discesa qualche volta ho raggiunto gli ottanta km orari (forse…). Ma la mia due cavalli era più mitica che altro e non l’avrei cambiata per niente al mondo. I miei spostamenti non erano mai troppo lunghi, raggiungevo la città di Bergamo e poco più. In inverno se di notte la lasciavo fuori all’aperto la mattina dopo non ripartiva e per metterla in moto dovevo fare ricorso alla borsa dell’acqua calda e alla forza fisica. Bisognava spingerla o farla spingere a qualche amico mal capitato così pian piano il motore si rianimava e riprendeva vita e andatura.

E così fui sorpresa quando mio papà venne da me, con l’aria di chi aveva già pianificato tutto, e mi chiese di accompagnarlo in Svizzera. Un viaggio di andata e ritorno in giornata perché doveva passare la “visita”, questa fu la richiesta! Io, da un lato, fui meravigliosamente sorpresa da tanta fiducia che mio papà riponeva in me, sia come autista che come degna accompagnatrice in un evento ufficiale di tale portata. E dall’altro impanicata perché temevo di non farcela a guidare fino all’estero, (ebbene sì avrei valicato il territorio italico per approdare in Svizzera) e assicurare a mio papà un viaggio senza incidenti di percorso. Ma ormai lui aveva deciso e l’espressione complice di mia mamma mi levò dall’impiccio. La notte prima dormii poco per l’agitazione. Il mattino seguente lui venne a svegliarmi presto, bevemmo del buon caffè preparato dalla mamma, la quale ci salutò con lo sguardo colmo di fiducia in me che mi fece sentire molto gratificata ….mi considerava un’adulta responsabile: bellissimo!!! Una volta in macchina mio papà mi tolse dall’imbarazzo dell’eccessiva prudenza e cominciò ad incoraggiarmi a fare qualche sorpasso, non me lo feci ripetere. Appena capivo che potevo fare un guizzo portavo la mia “due cavalli” a fare delle belle acrobazie stradali…con lui percorsi per la prima volta la strada della Brianza che attraversava le province di Milano e Como, un territorio molto bello. La strada era percorsa da molti tir che con i loro ricchi e pesanti carichi andavano più lentamente, allora con fare esperto di chi la strada la conosceva bene, lui mi suggeriva delle scorciatoie che prendevo a rotta di collo con il mio cartone animato…secondo me anche la mia “due cavalli” si è divertita un mondo quel giorno….In un paio d’ore arrivammo a destinazione: superata la dogana trovammo facilmente l’hub dove mio papà doveva presentarsi.

Arrivata lì, lui si registrò e cercò di capire quanto tempo avrebbe dovuto aspettare. Scambiò qualche parola con dei presenti per capire il livello di rigidità dei medici preposti a visitarli. A quel punto cominciai a cogliere il peso di quel viaggio… In un momento, percepii in lui una combinazione di emozioni: preoccupazione, umiliazione, responsabilità e onestà. Cercava di nascondere le sue paure a me, ma alla fine capì che avevo intuito il suo stato d’animo. Gli rivolsi uno sguardo pieno di incoraggiamento che apprezzò tantissimo. Ero contenta di essere lì con lui. 

A un certo punto lo chiamarono, venne il suo turno….lo fissai con gli occhi pieni di fiducia e lui si allontanò invocando l’aiuto del buon Dio. Lo vidi sparire dietro la porta che si chiuse alle sue spalle più appesantite del solito. Rimasta sola cominciai a guardarmi intorno. Fino a quel momento non avevo fatto caso alle persone presenti, ero presa dal capire i pensieri di mio papà. Con una veloce ricognizione mi resi conto che in quel luogo erano tutti uomini!!! Giovani, giovanissimi e alcuni più avanti negli anni. Tutti in silenzio, nessuno aveva voglia di chiacchierare. Ma gli sguardi parlavano per loro!!! Nei giovani vi si leggeva la fiducia di superare facilmente l’ostacolo, ma in quelli più avanti con gli anni si leggeva la paura di essere rifiutati… Ho raccolto in questi minuti un’enormità di sensazioni….ho capito tante cose….la dignità del lavoro, la fatica accettata, l’umiliazione, le tante responsabilità nei confronti delle famiglie, la solitudine. Vedevo negli sguardi i pensieri rivolti alle loro famiglie, ai loro figlioletti, alle loro mogli o madri che a casa aspettavano un esito positivo di quella visita medica. Ad un certo punto, la porta dell’ambulatorio si riaprì. Mio papà mi cercò con gli occhi e appena i nostri sguardi si incrociarono il suo viso si illuminò, era palesemente felice!!! Appena vicino, con gli occhi che si riempirono di lacrime per il calo di tensione, mi disse: “sono abile”. Lo disse con un tale sollievo che suscitò in me un enorme emozione, che ancora oggi a ripensarlo mi commuove immensamente.

L’”essere abile” voleva dire che, poteva continuare a lavorare in Svizzera un altro anno, e così avrebbe tenuto al sicuro la sua famiglia. Non gli importava la fatica, era felice perché noi saremmo stati bene! Andammo a mangiare qualcosa in un posticino che lui conosceva, era una piccola locanda che profumava di buono. Lui non parlava molto ma mi guardava e mi sorrideva. la leggerezza è stata la caratteristica del viaggio di ritorno. Si complimentò con me per come guidavo! Grazie ancora papà per tutto il bene che mi hai voluto❤️ “sono abile” sono le parole che hanno significato un “Riparo” per me. Più che le parole sono state le azioni, i gesti, i comportamenti dei miei genitori che mi hanno dato un riparo sicuro.

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