Mediterraneo mare di morte

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2356763-ragusaDi Salvo Barbagallo

Il Mediterraneo che doveva essere “mare di pace”, il Mediterraneo che già dal 2010 doveva essere “area di libero scambio”, si è trasformato in un mare di morte, in un mare che alimenta diatribe e polemiche, in un mare che vede Paesi insanguinati da guerre fratricide, in un mare i cui confini sono caratterizzati da violenze inaudite. In questo mare Mediterraneo non c’è legge che valga, non ci sono “guardiani” che fanno rispettare adeguatamente le regole di una convivenza possibile: in questo mare Mediterraneo alberga solo la disperazione di chi vuole attraversarlo nella speranza di trovare una terra che li accolga “in pace” e che mostri loro cosa significhi veramente la solidarietà umana. In questo mare Mediterraneo sembra affogare ogni giorno la speranza di un mondo migliore dove tutti, al di là di razza e colore della pelle, al di là di un ceto sociale definito, possano convivere senza essere sfruttati, senza essere dileggiati.

Sono trascorsi quattro giorni dall’ultima tragedia che ha “registrato” un numero imprecisato di vittime: 700, 900, un “essere umano” in più o in meno non fa “contabilità”. Quattro giorni trascorsi e, da un capo all’altro dell’Europa, solo parole, nessuna soluzione immediata, il termine “urgenza” accantonato, o quasi. Le parole non riportano in vita nessuno, le “azioni” probabilmente possono salvare chi si azzarda a effettuare un viaggio che, se pur breve, comporta rischi inimmaginabili. Nessuna soluzione immediata, solo qualche vaga ipotesi d’intervento, nulla di concreto, almeno sino a questo momento. C’è da chiedersi il “perché” di tanta lentezza da parte di coloro che hanno il compito-dovere di approntare misure idonee nel tentativo di “prevenire” altre tragedie. A questo punto anche ciò che scriviamo può apparire senza alcun senso poiché siamo fermamente convinti che con le “sole” parole non si cambia niente, così come siamo convinti che niente cambia con i “propositi” solamente annunciati e non applicati nei tempi giusti.

I “numeri” sono noti a tutti: l’Iom (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) afferma che oltre 21.000 persone hanno raggiunto le coste italiane tra l’inizio del 2015 e la metà di aprile, con un bilancio di duemila morti. Secondo i dati dell’Unhcr (l’Agenzia Internazionale per i Rifugiati), lo scorso anno 219.000 persone hanno attraversato il Mediterraneo da sud a nord, con il pesante consuntivo di oltre 3500 morti. Persone, esseri umani e qui si discute sul come chiamarli: profughi, clandestini, migranti? Occorre “classificare” questo flusso di…? Sono semplicemente fuggitivi. E’ gente che fugge dalla sua terra d’origine, dai Paesi della fascia dell’Africa sub-sahariana, dall’Eritrea, dalla Somalia, dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Siria e chissà da quanti altri territori dove si è scoperto che le “Primavere” non erano altro che sconvolgimenti in molti casi pilotati dall’esterno. Questa enorme massa di fuggitivi cerca di raggiungere la Giordania, il Libano, la Turchia, la Libia, da dove tentano di attraversare il Mediterraneo per approdare in Sicilia, e quindi indirizzarsi verso l’Europa. Un percorso obbligato, quello del Mediterraneo; un percorso che potrebbe essere anche “facile” se non ci fossero le organizzazioni criminali che monopolizzano i “trasporti” per i fuggitivi, un business di milioni e milioni di euro. Per gli scafisti la vita di un essere umane ha valore non solo fino all’attimo in cui viene imbarcata, ma anche dopo: quando raggiunge la prima meta, c’è il percorso successivo che il fuggitivo deve pagare.

Sono tutte cose note da tempo, quelle che cerchiamo di descrivere: le Procure siciliane conoscono i perversi meccanismi delle organizzazioni criminali. Le Procure portano avanti le inchieste, a volte riescono a individuare e catturare qualche “responsabile”, ma il problema resta in una dimensione abnorme. Al solito, è una questione “politica”, questa volta non solo “italiana”. Ecco perché l’urgenza si trasforma in lentezza nella ricerca delle soluzioni e l’emergenza continua a rimanere emergenza.

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