Stefano e Virgilio, 10 e 22 anni, bruciati vivi in pochi minuti.
Stefano e Virgilio Mattei hanno 10 e 22 anni quando uno scoppio violentissimo preannuncia l’incendio che avrebbe bruciato da lì a pochi istanti l’intero appartamento al 33 di via Bernardo di Bibbiena, nel quartiere Primavalle, portandosi via le loro giovanissime vite. E’ il 16 aprile 1973. Alle 3.20 un gruppo di giovani di Potere Operaio sale fin su al terzo piano del lotto 15, scala D, per lasciare davanti alla porta di un appartamento una tanica di benzina con un innesco artigianale. Attivano la miccia e fuggono via. Qualche secondo ed è storia.
L’appartamento è quello di un ex netturbino, Mario Mattei, segretario della sezione ‘Giarabub’ del Msi, Movimento sociale italiano, in via Svampa. Ha sei figli: quando si accorge dell’incendio, si getta giù da un balcone. La moglie Anna e i due figli più piccoli, Antonella di 9 anni e Giampaolo di soli 3 anni, riescono a fuggire dalla porta principale quando il fuoco comincia a diffondersi. Lucia, di 15 anni, grazie al padre si cala nel balconcino del secondo piano e da lì si butta, presa al volo da Mattei già a terra nonostante le ustioni sul corpo. Silvia, 19 anni, si getta dalla veranda della cucina e finisce sul marciapiede del cortile riportando la frattura di due costole e tre vertebre. Gli altri due figli, Virgilio di 22 anni, militante missino dei Volontari Nazionali, e il fratellino Stefano di 10 anni, invece, non riescono a gettarsi dalla finestra per scampare alle fiamme. Intrappolati, riescono ad affacciarsi e provano a chiedere aiuto. Alcune foto dell’epoca ritraggono Virgilio proprio mentre, completamente annerito e con il volto già devastato dalle fiamme, cerca di gridare. Muoiono bruciati vivi nel giro di pochi minuti. I vigili del fuoco li trovano carbonizzati e abbracciati vicino alla finestra che non erano riusciti a scavalcare.
Le indagini, affidate nell’aprile del 1973 al sostituto procuratore Domenico Sica, si indirizzano subito verso piste collegate all’area della sinistra extraparlamentare e, in particolare, verso gli esponenti dell’ala considerata più movimentista di Potere Operaio. Il 18 aprile vengono spiccati tre mandati di arresto per i presunti responsabili: Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo. Mentre Lollo viene catturato quello stesso giorno, Clavo e Grillo riescono a sfuggire all’arresto e si danno alla latitanza, riparando in Svizzera. Il 7 maggio, a sole tre settimane dall’attentato, l’inchiesta giudiziaria viene chiusa. Il giudice istruttore Amato formalizza le accuse nei confronti di Achille Lollo (in carcere), Marino Clavo e Manlio Grillo (ancora latitanti).
In favore dei tre esponenti di Potere Operaio parte una campagna innocentista alla quale contribuiscono anche alcuni autorevoli personaggi della sinistra, tra cui Dario Fo e Franca Rame, che organizza una raccolta fondi per Achille Lollo. Una controinchiesta del collettivo Potere operaio, poi rivelatasi un depistaggio a tutti gli effetti, tenta di attribuire la responsabilità della tragedia a una faida interna tra esponenti di destra.
Il processo di primo grado inizia il 24 febbraio 1975, a quasi due anni dal rogo, con due degli imputati, Manlio Grillo e Marino Clavo, ancora latitanti, e il solo Achille Lollo in carcere. Si conclude in Corte d’Assise il 15 giugno 1975 con l’assoluzione per insufficienza di prove degli imputati dalle accuse di incendio doloso e omicidio colposo. Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo vengono condannati solo nel processo di appello bis. Ma, rilasciato in attesa di processo d’appello, Lollo fugge in Brasile e si sottrae alla cattura come già Manlio Grillo, rifugiatosi in Nicaragua, e Marino Clavo, tuttora non rintracciabile. La conferma della condanna in Cassazione arriva il 13 ottobre 1987. Tuttavia, la pena viene dichiarata estinta dalla Corte d’assise d’appello di Roma per intervenuta prescrizione, su istanza del difensore di Marino Clavo.
Nel 2005 alcune interviste clamorose portano a una riapertura dei fascicoli. In una di queste Achille Lollo ammette la colpevolezza propria e degli altri due condannati, aggiungendo che a partecipare all’attentato furono in sei, i tre condannati più Paolo Gaeta, Diana Perrone (figlia dell’editore Ferdinando) e Elisabetta Lecco, ammettendo inoltre di aver ricevuto aiuti dall’organizzazione per fuggire. Come lui, il 17 febbraio anche Manlio Grillo ammette per la prima volta la propria responsabilità e di aver ricevuto aiuti dall’organizzazione per fuggire.
La procura di Roma riapre quindi il caso: parte un procedimento contro Gaeta, Perrone, Lecco (Primavalle-bis), e un’inchiesta contro Lanfranco Pace, Valerio Morucci e Franco Piperno (Primavalle-ter) sulla base di una denuncia della famiglia Mattei che li indica quali mandanti dell’attentato. Il procedimento Primavalle-bis, già chiuso nel 2010 per impossibilità di procedere, viene definitivamente archiviato nel 2011 a causa dell’assenza di trattati per rogatorie internazionali con il Nicaragua e il Brasile (Lollo, morto nel 2021, rientra in Italia solo nel 2011, dopo la prescrizione e l’archiviazione). Il Primavalle-ter viene invece sospeso, a causa dell’anomalia giuridica delle precedenti condanne per omicidio colposo e incendio. Ad oggi, 51 anni dopo, il rogo di Primavalle resta ancora impunito.