di Agostino Spataro
Nel suo interessante intervento su “Repubblica” del 30 aprile, Nino Mannino si è risentito perché «qualche raffinato giurista e qualche ringhioso autoreferente esponente del movimento antimafia» hanno rimarcato che Pio La Torre chiese la collaborazione di magistrati (Chinnici, Terranova e Costa, anch’essi caduti nella lotta alla mafia), per elaborare la proposta di legge di cui La Torre, a giusto titolo, fu il primo firmatario. Non so a chi intendesse riferirsi Mannino, tuttavia il ricorso alla collaborazione (per altro molto più ampia di quella dei magistrati citati) penso debba ascriversi all’alto senso di maturità democratica e allo spirito unitario che caratterizzò l’ azione di La Torre nella fase di formulazione del progetto di legge e durante il lunghissimo periodo (circa tre anni) di giacenza presso le commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera. Anche perché Pio prevedeva la dura reazione dei mafiosi e lo sbarramento di larghi settori del Parlamento nell’ostacolare l’iter di quella proposta di legge che introduceva nell’ordinamento un nuovo tipo di reato (l’ associazione mafiosa) e penetranti norme di controllo, fino alla confisca, dei patrimoni mafiosi.
Uno sforzo di coinvolgimento instancabile che La Torre intraprese subito dopo l’ assassinio di Cesare Terranova e di Lenin Mancuso, avvenuto a Palermo il 25 settembre 1979, per attivare quante più forze e competenze possibili, dentro e fuori il Pci, con l’obiettivo politico di creare un ampio schieramento di forze e di consensi attorno a un testo che doveva risultare inattaccabile, anche se non blindato, dagli strali (subdoli o in buona fede) di una folta schiera di personaggi politici, di eminenti giuristi e principi del foro pronti a invocare (come puntualmente fecero) l’incostituzionalità delle norme più severe. In questo articolo desidero ricordare, sulla base di quanto a me personalmente risulta, taluni momenti che portarono alla presentazione della proposta di legge La Torre; non si tratta di nuove rivelazioni, soltanto di una messa a punto per offrire un contributo, non esaustivo, ai fini di una più puntuale ricostruzione del percorso della legge in questione. Il 30 ottobre 1979, Pio La Torre convocò nel suo ufficio di Botteghe Oscure una riunione ristretta e informale (oltre me, sono presenti i deputati Aldo Rizzo, Francesco Martorelli, Salvatore Corallo, Epifanio La Porta e Luciano Violante). Pio aprì mostrandoci alcuni fogli vergati: «Questi – disse – sono appunti abbozzati dal povero Terranova che mi ha consegnato dopo le elezioni (alle quali non era stato ricandidato, n.d.r.). Mi sembrano molto interessanti, prendono spunto da talune legislazioni straniere, in primo luogo da quella americana~». Seguì una discussione e alla fine Pio propose di creare un gruppo di lavoro, formato da Rizzo, Violante e Martorelli, con l’incarico di formulare una prima bozza di disegno di legge. Il 23 e 24 novembre 1979 si tenne a Palermo un convegno nazionale del Pci, concluso da Alessandro Natta, su “La mafia oggi, potere e criminalità”, nel quale intervennero La Torre, Occhetto e Macaluso, mentre Aldo Rizzo e Francesco Martorelli presentarono all’assise nazionale le nuove «proposte d’ intervento per fronteggiare il fenomeno». Da considerare che queste iniziative si svolsero in un clima che, soprattutto a Palermo, era divenuto molto pesante sul finire del 1979, anno di svolta per la strategia del terrorismo mafioso: caddero il commissario Boris Giuliano, il segretario provinciale della Dc Michele Reina e il consigliere istruttore ed ex senatore Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso. Clima inquieto e gravido di sospetti che poteva dar luogo a episodi di nervosismo come quello accaduto fra La Torre e l’allora ministro della Difesa, il democristiano Attilio Ruffini, la sera del 20 novembre 1979 nell’incantevole giardino di Villa Abamalek, residenza dell’ ambasciatore dell’ Unione Sovietica in Italia, in occasione del ricevimento offerto in onore di Ponamariov, membro influente dell’ ufficio politico del Pcus. Quella sera c’erano tutti a Villa Abamelek: ministri e generali, capitani d’ industria e segretari di partiti e sindacato, intellettuali e alti prelati, venuti a omaggiare il potente inviato di Mosca giunto a Roma, su invito di Andreotti, ufficialmente per incontrare la commissione Esteri della Camera, in realtà per sondare gli ambienti politici e di governo italiani sulla spinosa questione dei missili nucleari intermedi. Ruffini si avvicinò al nostro gruppo (c’erano Enrico Berlinguer, Bufalini, Pajetta, Rubbi) per salutare e poi, volgendosi verso La Torre, bisbigliò qualcosa che non riuscii a capire. Vidi solo che Pio s’ irrigidì e per qualche attimo si guardarono, muti, con occhi torvi. Pio era turbato e io cercai di sdrammatizzare, ma lui di rimando: «Tu sei troppo giovane, non puoi capire. Non hai visto come mi ha fissato?». Per me, poco più che trentenne pur essendo alla seconda legislatura, non era facile decifrare il significato recondito di quegli sguardi di due forti personalità fra loro avverse, entrambe palermitane e con alle spalle una lunghissima storia di scontri furiosi e drammatici, tuttavia mi parve che la preoccupazione di Pio, almeno in quel caso, fosse esagerata. L’avvenimento che impresse un forte impulso all’iniziativa antimafia di Pio e di noi tutti fu certamente l’assassinio, il 6 gennaio 1980, del presidente della Regione, il democristiano Piersanti Mattarella. Il 15 gennaio tenemmo alla Camera una riunione dei deputati comunisti siciliani, presieduta da La Torre e da Ugo Spagnoli, a conclusione della quale venne emesso un comunicato – pubblicato su “l’Unità” e sui quotidiani siciliani – con il quale si chiedeva alla presidenza della Camera di porre subito in discussione «le mozioni relative alle proposte dell’Antimafia, pendenti da 4 anni», mentre si annunciava ufficialmente la costituzione di un gruppo di lavoro, formato da Rizzo, Martorelli e Violante, col compito di predisporre, sulla base delle indicazioni politiche scaturite dal convegno nazionale di Palermo, «un pacchetto di misure legislative finalizzate a un’ azione di rilancio su basi nuove della lotta alle organizzazioni e al sistema di potere mafiosi». Anche la Dc tenne a Palermo un convegno nazionale antimafia e, per bocca del suo presidente Piccoli, assunse l’impegno solenne di presentare in Parlamento «idonee proposte di legge». Non arrivarono mai né da parte della Dc né di altri partiti del vecchio centrosinistra (Psi, Psdi, Pri) che pure avevano dichiarato bellicosi propositi contro la mafia. Evidentemente, la soppressione di Mattarella aveva centrato appieno l’ obiettivo, quello d’intimidire anche i settori più progressisti della Dc. Pio denunciò in Parlamento e sulla stampa il disimpegno democristiano, sperando che qualcuno nel partito di Piersanti Mattarella si facesse obbligo di rispettare la promessa assunta in pubblico; di pari passo, sollecitò il gruppo di lavoro ristretto affinché accelerasse la stesura del nostro disegno di legge. Sulla bozza elaborata da Rizzo, Violante e Martorelli, in strettissima intesa con Pio La Torre, si aprì una discussione nel Pci e nel gruppo parlamentare e una larga consultazione fra magistrati, giuristi e operatori del diritto che sfociò nella presentazione, il 3 aprile 1980 presso la segreteria generale della Camera, della proposta di legge di cui furono firmatari La Torre, Occhetto, Spataro, Martorelli, Rizzo, Violante e tutti i deputati siciliani e calabresi del Pci e della Sinistra indipendente. L’iniziativa parlamentare venne presentata alla stampa anche «come un contributo di elaborazione politico giuridica al fine di aggiornare i sistemi di lotta alle organizzazioni mafiose alla luce delle esperienze e delle modificazioni prodottesi nella società e particolarmente nei campi, vecchi e nuovi, in cui opera e prospera la mafia» (in “l’Unità” del 4 aprile 1980). Pio si mostrò molto contento dell’accoglienza che tutta la stampa italiana riservò alla proposta di legge definita «molto innovativa». Tuttavia, taluni esperti e principi del foro “garantisti” sollevarono questioni di incostituzionalità. Era questo il segnale che dentro la mafia qualcuno cominciava a preoccuparsi.
Fonte: La Repubblica