Storie ordinarie di acqua

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di Guido Di Stefano

    I corsi e i ricorsi storici (tramandatici da Giambattista Vico) sono una costante in questa nostra amata madre Sicilia.

   Ciclicamente si riscoprono le emergenze idriche, in ogni stagione,  in ogni “opportuna” occasione. Acqua destinata al consumo umano e acqua per usi agricoli si presentano alla ribalta alla bisogna, singolarmente e/o in coppia.

   Mancata programmazione, ostacolata programmazione o inattuata programmazione? Non ci pronunciamo: sono troppi i fatti e i non fatti, i detti e i non detti da vagliare e giudicare.

   Sappiamo per certo che in Spagna, mediante un massiccio impiego dei fondi strutturali europei, per  appena 2.500.000 utenti sono stati realizzati invasi (o dighe) per una capacità di accumulo di tre miliardi di metri cubi (annui), avendo puntato la regione locale (e lo Stato) allo sfruttamento primario delle acque superficiali onde salvaguardare le acque sotterranee.

   Noi siamo proprio speciali e poiché in numero siamo più del doppio ci siamo fermati ad una capacità di invaso effettivo (e in sicurezza) che forse (ad essere fantasticamente ottimisti) non raggiunge il venticinque per cento dei summenzionati tre miliardi. Siamo speciali anche perché per motivi diversi abbiamo lasciato vuote due grosse dighe (transitate alla Siciliacque S.p.A.) la cui attivazione richiedeva ormai pochi spiccioli (rapportati  alle spese sostenute); siamo speciali perché abbiamo “rinunciato” anche all’idea di qualche invaso in aree emergenziali; siamo speciali perché non abbiamo contezza di efficienza-efficacia-economicità di un “giovane” rivoluzionario dissalatore sito in una zona di emergenza; siamo speciali perché abbiamo puntato troppo sullo sfruttamento e depauperamento delle falde acquifere (sotterranee) con conseguente scadimento delle forniture idriche.

     Quante sconfitte hanno dovuto subire i numerosissimi comuni e silenti cittadini, i numerosi comuni e non troppo loquaci agricoltori per i fermi e inamovibili “no di principio” opposti da meno numerosi ma più “armati e ascoltati” cittadini.

     Qualche volta si è anche avuta l’impressione che a qualche politico non abbia sempre valutato opportunamente l’importanza strategica delle falde acquifere.

      E così un poco per la siccità, un poco per l’alluvione, un poco per la frana i comuni mortali soffrono. A proposito di alluvioni: gli invasi ben costruiti e ben utilizzati servono anche per la “laminazione” delle piene.

      Torniamo ai fatti recenti.

Messina è in “dramma” idrico, conseguente alla rottura della condotta di adduzione dell’acqua potabile: la città è stata istantaneamente privata di un vero fiume d’acqua con ordine di grandezza approssimativo di un metro cubo al secondo.

       Possiamo anche condividere la dichiarazione che sono state le perdite (per corrosione) della condotta che hanno generato la frana devastatrice. Resta la tragedia: una città senza acqua.

     Già perché Messina vive dell’acqua dell’Etna e dei Nebrodi. A voi magari non diranno  niente i nomi Bufardo, Torrerossa e altri che omettiamo; magari vi ricorderanno qualcosa i nomi Fiumefreddo, Piedimonte (vi giace una galleria con intenzioni originali captative), Linguaglossa, Castiglione, Moio Alcantara: sono territori in qualche modo interessati dalle acque sotterranee che dissetano e igienizzano Messina; e magari qualcosa vi diranno il serbatoio naturale idrico monte Etna (o “fiume” sotterraneo dell’Etna) e bacino dell’Alcantara.

    Si badi bene che non è l’unica condotta che sposta l’acqua da una provincia all’altra, da comune a comune, da bacino idrografico ad altro bacino idrografico. Tanto per fare un esempio ne conosciamo un’altra che capta l’acqua sui Nebrodi, ne consegna un poco a Maletto e trasferisce il resto in provincia di Enna e precisamente a Centuripe.

    D’altra parte il posizionamento delle dighe e la distribuzione delle acque (agricole o umane) non consente sempre dei tagli lineari o “confinati”.

    Onde per cui la lettura dell’ultima legge regionale sugli “A.T.O. (ambiti territoriali ottimali) per l’acqua” ci lascia perplessi.

    ATO provinciali? Ma molto spesso prelievi e utilizzi ignorano i confini!

ATO per bacini idrografici? Intanto per evitare le proliferazioni bisognerebbe “accorpare” i bacini e stabilirne gli  aventi diretto: ma sarebbe lecito?

ATO per comuni (o raggruppamenti)? E se i “ricchi” (di acqua) si associano, cosa toccherebbe ai  poveri?

    Noi guardiamo al passato, forse troppo; ma questo ci consente di sottoporre a tutti una proposta: “si potrebbero “ripristinare”, con piccoli aggiustamenti e idonee regole le tre valli di araba memoria (Val Demone, Val di Noto, Val di Mazara) rinominandole sostituendo la parola “valle” con “ ATO”.

    Sono solo pensieri o meglio sogni forse irrecuperabili come l’indipendenza.

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