Le osservazioni di Giuseppe Beretta alle tesi del XVII Congresso del PCI

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Di Santi Maria Randazzo

Riprendiamo la pubblicazione degli scritti inediti di Giuseppe Beretta, uno dei più acuti intellettuali catanesi, fu lui ad essere incaricato di presentare il premio Nobel Salvatore Quasimodo a Catania, iniziando dalla sua proposta di Tesi Congressuale per il XVII congresso nazionale del P.C.I. del 1986. La sua lucidissima analisi politica ci riconsegna un dibattito ed una problematica politica che, per alcuni aspetti, ci sembra che possano valere anche oggi all’interno della dialettica politica delle forze di sinistra e non solo.

LA TESI CONGRESSUALE DI GIUSEPPE BERETTA:

Non c’è dubbio che in nessun altro partito come nel P.C.I. la base da qualche tempo discute tanto, con tanta libertà, con tanto impegno intellettuale e morale. E la crisi che indubbiamente il partito attraversa, non che illanguidire, intensifica e drammatizza il dibattito. Non è dunque crisi di decadenza, ma di drammatica trasformazione, di adeguamento al rapido evolversi del mondo in cui viviamo, sia in dimensione planetaria che nazionale. E’ naturale che i militanti in questa congiuntura, di fronte al tramonto di tante antiche certezze, a tu per tu con la problematicità delle nuove vie da seguire, da un lato compromessa la identità del partito, dall’altro reclamino nuove certezze e soprattutto si ribellino alle ambiguità, alle timidezze, ai compromessi tattici. L’assenza di una linea chiara, di precisi obiettivi di lotta, la mancata definizione dei gruppi politici e delle categorie sociali a cui allearsi e, soprattutto, a cui contrapporsi rischia, fra l’altro di suscitare nostalgia per una identità perduta, per certezze disperse. Si spiegano così la delusione e la dolorosa reazione con cui va scontrandosi, nei primi congressi di base, la proposta di tesi, largamente accusata di genericità, di timide cautele. Generiche e timide sono in realtà le tesi, come paurose di alienarsi le alleanze che possono aiutare il P.C.I. a rompere l’isolamento. In realtà prima l’esasperato strappo autonomistico del P.S.I., poi il fallimento della linea berlingueriana di compromesso storico e soprattutto della sua applicazione nella politica di solidarietà nazionale, infine la constatazione della inattualità pratica dell’alternativa di sinistra hanno drammatizzato il problema delle alleanze. E invece un orizzonte il più ampio possibile di alleanze, di consensi o almeno di legittimazioni anche internazionali è condizione indispensabile perché il P.C.I. possa ritenere attuabili le sue aspirazioni governative e anche il suo sogno di farsi suscitatore e catalizzatore di forze democratiche europee in grado di operare autonoma mediazione di pace tra U.R.S.S. e U.S.A.. Ma lo sforzo di cercare solidarietà, di smussare contrasti, di dissipare diffidenze non va a detrimento di una precisa identità, di un nucleo di impegno capace di rincuorare i militanti e anche, in definitiva, di attirare convinte e durature solidarietà? Il problema, in primo luogo, che a lungo sembrò e in qualche misura ancora sembra attanagliare e perfino paralizzare il P.C.I. è costituito dalla scelta e indicazione delle alleanze capaci di dimostrare possibile l’alternativa democratica. Anche il dilemma lessicale ha denunziato fino a un certo momento la perplessità: alternativa di sinistra o alternativa democratica? Puntare decisamente sui partiti di sinistra, P.S.I. compreso, ed escludere a priori la D.C. o evitare di tagliare tutti i ponti e lasciarsi un margine di manovra fra P.S.I. e D.C.? La prima ipotesi poteva allontanare indefinitivamente la prospettiva dell’alternativa, ma la seconda – e se ne sono subito avvertiti chiarissimi sintomi – rischia di offrire il P.C.I. ora all’uno ora all’altro partito come arma di ricatto reciproco. E allora evitare di accennare ad alleanze politiche e sollecitare alleanze sociali? Ma perché questa ipotesi appaia realistica occorrerebbe avvalorare l’indicazione delle categorie sociali a cui rivolgersi con il disegno preciso, per il lungo periodo, di una riforma della società e dello stato, per il breve e medio termine con una serie di proposte di legge che promettano risposte efficaci ai problemi contingenti. Come reagire alla crisi dello stato sociale? Quali strutture conservare, quali abolire, quali modificare e come? Come contenere il disavanzo? Quali tagli alla spesa pubblica? Come aumentare le entrate? Con quali precisi provvedimenti rendere più efficiente e più giusto il sistema fiscale? Come conciliare la rivoluzione tecnologica con la metà della piena occupazione? E’ chiaro che non basta evidenziare questi problemi – come in gran parte si limitano a fare le tesi per il congresso – senza indicare concrete soluzioni perseguibili nell’immediato mediante circostanziate decisioni e adeguati provvedimenti di legge da proporre innanzitutto agli iscritti e successivamente agli elettori. E’ evidente che nel groviglio di omertà, di elargizioni clientelari, di privilegi corporativi, di generosità demagogiche create da decenni di irresponsabilità democristiana qualunque tentativo di razionalizzazione è destinato a ferire interessi consolidati di gruppi e di categorie che invece si spera di accattivarsi. Ma forse non è solo questo timore a rendere tanto generiche le indicazioni delle tesi. Forse è la difficoltà di scendere dalle astrattezze ideologiche alla concretezza dei problemi, dalla fede deterministica alla problematicità del presente, forse è la novità del riaffacciarsi di problemi che si era ormai abituati a ritenere definitivamente risolti. Mercato o programmazione? Per quali vie favorire l’accumulazione? Quale rapporto fra sviluppo ed ecologia? Fra sviluppo e società? E in primo luogo: fino a che punto è giunta la coscienza che il socialismo non è una certezza scientifica ma un impegno morale, anzi del tutto esistenziale, dall’esito incerto, da perseguire giorno per giorno inventando soluzioni a nodi troppo spesso imprevedibili? Certamente le tesi hanno il merito di proporre un ampio panorama di questi problemi e degli innumerevoli ad essi connessi e la individuazione dei problemi , si sa, è fase preliminare indispensabile alla loro soluzione. Essa però non è sufficiente a coagulare alleanze se non è seguita da una catena di puntuali proposte immediatamente realizzabili, capaci di sollecitare consensi ma anche – è inevitabile – dissensi. Ma in questo campo qualunque cautela, qualunque incertezza suggerita da calcoli politici o elettorali è destinata a isterilire l’azione del partito. E tuttavia troppe incertezze, imputabili ora a prudenza politica ora a timidezza culturale, appaiono nelle tesi congressuali. Qui di seguito se ne sono voluti indicare alcuni degli esempi più vistosi, scelti in prevalenza fra i temi economico-sociali, meno appariscenti forse e di meno facile chiarimento ma non per questo meno essenziali rispetto alle macroquestioni come i rapporti internazionali, la pace e lo stesso contenzioso stato-chiesa che sembrano monopolizzare le discussioni precongressuali.

TESI N. 4 – Premesso che l’estensione del mercato capitalistico ha fallito lo scopo di avviare uno sviluppo equilibrato del terzo mondo e che in pari fallimento è incorso il tentativo di trasposizione di forme di gestione proprie delle economie a pianificazione centralizzata, si auspica che l’Europa inauguri una politica di cooperazione e di solidarietà che punti a mettere in moto in quei paesi un processo di autonomo sviluppo. Ma con quali concreti interventi la comunità europea può contribuire alla “valorizzazione delle risorse umane e materiali dei paesi del Terzo mondo” che prescindano appunto e dalla economia di mercato e da una strategia di pianificazione? In questo caso l’astrattezza della proposta è aggravata dalla ricorrente difficoltà di superare la dicotomia mercato-pianificazione.

TESI N. 7Come “modificare i meccanismi di sviluppo delle società capitalistiche” in modo da “utilizzare le immense potenzialità della rivoluzione tecnologica” non unicamente per estendere il profitto ma per fini di interesse generale come la “piena occupazione a più elevati livelli di qualificazione e di autonomia”? E soprattutto come promuovere attorno a questo obiettivo” le più larghe convergenze tra diverse forze sociali, politiche, culturali”? E’ questo il problema centrale di questa terza rivoluzione industriale che stiamo vivendo, ma, appunto, come? Come conciliare gli interessi di diverse forze sociali? E, una volta ottenuto un largo consenso attorno alle finalità generali, con quali strumenti intervenire che non siano coattivi? Certo non è escluso che strumenti di tal fatta possano essere rinvenuti, ma, perché la proposta sia persuasiva ai fini proprio della auspicata convergenza di consensi, occorre indicarli.

TESI N. 8 – Nessun dubbio che il”controllo democratico dei processi di formazione, accumulazione, trasmissione dell’informazione e la visibilità delle fonti e dei processi decisionali costituiscono un capitale nuovo e fondamentale delle libertà costituzionale e dei diritti individuali”. Ma come conciliare l’esercizio di un controllo democratico con l’accentramento direzionale imposto dalle dimensioni stesse dei mass-media? Né a quelle dimensioni è possibile rinunziare a meno di non avvalersi delle più aggiornate tecnologie. Occorre, quanto meno, definire esattamente cosa si intenda per controllo “controllo” e per “democratico” indicandone i modi.

TESI NN. 24 4 25 – Una volta stabiliti “democraticamente le compatibilità e gli obiettivi sociali ed economici volti a orientare l’insieme della produzione verso l’innovazione, il soddisfacimento dei bisogni” ecc. ecc., come governare il mercato e come programmare senza adottare, in sede legislativa prima, in sede burocratica nella fase esecutiva, “un insieme di vincoli” e di condizionamenti? Molto facile auspicare “una prospettiva che superi, in una sintesi più alta, sia lo statalismo burocratico che le ipotesi neoliberiste” ( tesi n. 24) e la “ricerca di forme originali e democrazia economica, di controllo e di ntervento democratico del processo di accumulazione” (tesi n. 25) senza precisare una proposta di ordinamenti idonei a dimostrare percorribile quella terza via la cui realizzabilità tanti economisti di destra e di estrema sinistra continuano a negare.

TESI N. 25 – Tutti i partiti da qualche anno chiedono più o meno a parole “un rinnovamento dello stato attraverso una profonda riforma del parlamento e dell’esecutivo, una rigenerazione del decentramento regionale e la riforma delle autonomie locali, il risanamento e la razionalizzazione della pubblica amministrazione, la lotta contro la mafia, la camorra e i poteri occulti. Ma quali sono le concrete proposte del P.C.I.? Anche se il problema trova insufficiente risalto nelle tesi ( e di questa scarsa  sensibilità – e timidezza tattica? – e prova il rigetto non solo dell’emendamento Tucci alla tesi 37) non pochi autorevolissimi esponenti del partito e, in genere, della sinistra vedono nella riforma delle istituzioni il primo ineludibile momento di un globale progresso politico e civile. Ma appunto per questo il P.C.I. ha il dovere di avanzare sin da ora concrete proposte di riforme costituzionali. Certamente non basta dire che obiettivo debba essere ”accrescere la partecipazione e il controllo dei cittadini e al tempo stesso la rapidità e l’efficacia delle decisioni”, tanto più che le due istanze, così enunciate senza una ipotesi di reale attuazione, rischiano di apparire difficilmente conciliabili.

TESI NN. 27 E 28 – La rinunzia alla priorità della classe operaia (vedi rigetto dell’emendamento Cossutta alla tesi 27) e la sua alleanza paritaria con tecnici e quadri della produzione, con intellettuali, con piccoli imprenditori sono le condizioni necessarie perché il partito si adegui agli attuali mutamenti sociali ed esca dall’isolamento. Ma come è possibile coagulare tali alleanze limitandosi ad indicare generici obiettivi privi di concrete proposte di innovazioni legislative e istituzionali idonee a raggiungerli? Non basta certo – come finora spesso si è fatto – rimanere nel vago o rinunziare ad iniziative qualificanti per non urtare interessi e suscettibilità di questa o di quella categoria.

TESI N. 37 – “…partire non da scelte pregiudiziali di schieramento, ma da uno sforzo volto ad individuare i più gravi e urgenti problemi del paese…”. Quanti altri partiti hanno in passato più o meno prossimo parlato di una “politica delle cose? E il P.R.I. non ha sempre affermato di privilegiare i programmi nei confronti degli schieramenti? La novità dovrebbe essere allora non limitarsi ad avanzare l’esigenza della priorità del programma e neanche invitare a convenzioniu o a dibattiti di ricerca altri partiti o gruppi di opinione, ma proporre un proprio programma approvato dal congresso su cui cercare onvergenze magari facendo ulteriori elaborazioni.

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