Contro la ferocia del terrore jihadista nessuna unità d’intenti

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di Salvo Barbagallo

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Alle parole di Hollande “Siamo in guerra, chiediamo aiuto”, da più parti si risponde con parole come “Prudenza, calma, moderazione, non reagire d’istinto, eccetera eccetera”. Prese di posizioni ambigue, spesso contrastanti, quasi a dimostrare che fra “alleati” occidentali manca un filo conduttore unico, o una volontà comune. Forse c’è di mezzo una Pace che i potenti non vogliono.

I tragici avvenimenti della notte del 13 novembre scorso a Parigi a chi decide (fuori dalla Francia) le sorti del proprio Paese non indicano un percorso comune, un percorso che possa essere condiviso razionalmente: questo dà la stura a qualsiasi interpretazione. Gli attentati di Parigi non avrebbero dovuto costituire una “sorpresa”: la ferocia dei carnefici jihadisti è stata mostrata in tante e tante occasioni, divulgata dagli stessi appartenenti al cosiddetto Califfato nero in tutte le forme. Le decine di teste mozzate, le fosse con i cadaveri di essere umani trucidati senza pietà, avevano già fatto dire (prima ancora che lo affermasse pure Papa Francesco) che in quelle terrificanti azioni non c’era “nulla di umano”: quale “diplomazia”, quale “dialogo” è possibile adottare con chi taglia teste di creature “umane” e toglie la vita a innocenti con freddo cinismo e con allucinante determinazione? La religione, la fede non ha nulla a che spartire con questi “non umani”. Allora?

Allora è consequenziale chiedersi il perché dell’ambiguità che caratterizza i comportamenti di coloro che possono fermare lo scempio. E’ consequenziale domandarsi le ragioni che promuovono azioni militari che non risolvono un bel nulla, invece di adottare stretegie mirate e condivise per estirpare il bubbone che sta distruggendo la vita civile mentre, probabilmente, si è ancora in tempo.

Dopo il 13 novembre di Parigi, ora sono i giorni dei commenti e delle analisi, utili se da essi scaturissero indirizzi che i “potenti” volessero raccogliere.

Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di ieri ( 17 novembre) afferma: Avremo la coesione necessaria per fronteggiare coloro che ci hanno dichiarato guerra? Di «guerra» ha parlato il presidente Hollande dopo la strage. Prima di allora (anche dopo l’attentato di Charlie Hebdo) nessun leader europeo si era arrischiato a usare quella parola (…) È più probabile che l’Europa, in breve tempo, sia di nuovo pronta a dividersi fra due fronti ugualmente insensati; da un lato, il fronte di chi vuole fare di tutta l’erba un fascio, prendersela con tutti i musulmani (sarebbe un favore allo Stato Islamico, getterebbe fra le sue braccia anche gente che avrebbe fatto altro) e, dall’altro lato, il fronte di chi pretende di trattare l’estremismo terrorista come un fatto estraneo all’islam e comunque isolato. Come la prima, anche questa seconda posizione si risolve in un favore per gli estremisti: impedisce di mettere a nudo, e combattere, le affinità cultural-ideologiche fra la minoranza jihadista e settori più ampi del mondo musulmano. Se quelle affinità non ci fossero, ad esempio, non ci sarebbero stati i tanti consensi registrati a suo tempo nel mondo islamico per l’azione contro Charlie Hebdo. Né certi giornali del mondo arabo avrebbero potuto permettersi in questi giorni di pubblicare vignette satiriche contro la Francia aggredita (…) I leader europei devono far fronte a una nuova realtà: nelle nostre società ci sono terroristi impegnati a invadere, una sorta di quinta colonna. Diciamo pure “arrivederci” all’epoca dei confini aperti e agli articoli entusiasti su come l’immigrazione può risolvere il deficit demografico dell’Europa”.

Maurizio Molinari sul quotidiano La Stampa (ieri, 17 novembre) evidenzia: “Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20”: Vladimir Putin sceglie la chiusura del summit di Antalya per far sapere ai leader attorno al tavolo che la forza dello Stato Islamico è anche in una zona grigia di complicità finanziarie che include cittadini di molti Stati (…). Phillips, ex alto funzionario del Dipartimento di Stato Usa ora alla Columbia University di New York, assicura: “Sono molti i ricchi arabi che giocano sporco, i loro governi affermano di combattere Isis mentre loro lo finanziano” (…).

Il Fatto Quotidiano online in prima pagina (ieri, 17 novembre): Il presidente russo Putin ha mostrato durante il G20 di Antalya foto delle colonne di autocisterne usate dai miliziani per il trasporto del greggio. Secondo una recente inchiesta del Financial Times, lo Stato islamico guadagna ogni giorno 1,5 milioni di dollari dalla vendita del petrolio estratto nei territori sotto la sua occupazione: oltre alla Siria ne fanno parte anche territori iracheni e della Libia. In particolare, la produzione del greggio gestita dagli jihadisti guidati da al-Baghdadi si concentra nella provincia siriana orientale di Deyr az Zor, alla frontiera con l’Iraq. Testimoni locali affermano che l’Isis controlla anche il giacimento di Qayyara, vicino alla città irachena di Mosul, da cui viene però estratto un tipo di greggio più “pesante” usato soprattutto per la produzione di asfalto (…).

A conti fatti, dell’Isis i servizi segreti di molti Paesi conoscono ogni cosa: dove prendono i soldi e chi gli fornisce le armi per la guerra che, adesso, investe pure l’Europa, e non c’è da stupirsi se le varie “intelligence” falliscono nell’individuare dove i terroristi attaccheranno. Gli attacchi sono imprevedibili nei loro obbiettivi. Ma le strategie complessive possono essere studiate e avranno effetto se c’è l’indispensabile coesione d’intenti. In caso contrario la lista dei fallimenti è destinata ad allungarsi, come, purtroppo, sarà desinata a dilatarsi il numero delle vittime.

Così, alla fine, non avranno alcun senso le analisi e i “commenti” ai fatti: solo parole dopo che le tragedie si sono consumate. Noi scriviamo perché è nostro dovere “osservare” e “portare a conoscenza” dei fatti: le nostre osservazioni sono parte integrante della cronaca che ci insegue, sono esse stesse “cronaca”, dalla “cronaca” scaturite.

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