Ai ragazzi di una scuola media dell’alta Italia è stato dato un tema da svolgere: “L’integrazione è un problema?”. A chi ragazzo è non più, tema e interrogativo posti appaiono ipocriti, o quanto meno falsi, o quanto meno in mala fede, senza escludere la “buona fede”. Perché?
Innanzitutto perché il termine “integrazione” in Italia, oggi come oggi, viene “applicato” soltanto a coloro che sono “migrati” dai loro Paesi d’origine (lasciamo stare in questo ragionamento i reali motivi della “migrazione” di massa in atto) per stabilirsi in questo territorio nazionale. In secondo luogo perché (ma questa è una nostra opinione) non crediamo che la maggior parte degli esacerbati fautori che si agitano tanto parlando di “necessaria integrazione” lo facciano senza una propria finalità o un proprio tornaconto (quali che siano); in terzo luogo perché quanti predicano la “integrazione” contemporaneamente si battano affinché gli stessi soggetti interessati mantengano la loro “identità” (aperta contraddizione!); in quarto luogo perché non tengono conto degli oggettivi fattori di contrasto (cultura, tradizioni, religioni, leggi) che difficilmente possono essere amalgamati, in special modo nei tempi brevi; in quinto luogo, come può ipotizzare un Paese come l’Italia di portare a buon fine un processo d’integrazione con chiunque provenga dall’esterno dei suoi confini quando non è riuscito a farlo nell’interno con gli stessi connazionali?
Limitandoci all’esame dell’ultimo punto, il termine che viene inevitabilmente all’attenzione è “discriminazione”. Chi può negare che in (alta) Italia anche ora, per esempio, i Siciliani vengono “discriminati” e che nei loro confronti permane una diffidenza che affonda radici lontane nel tempo, perché (luogo comune) al Siciliano inevitabilmente si affianca la parola “mafia”? Nessuno può negare la continua conflittualità esistente tra Nord e Sud e viceversa, conflittualità che non è soltanto “accademica”. Nessuno può negare che vengono portate avanti ipotesi di “divisione” dell’Italia in tre macroregioni, Nord, Centro e Sud, così come nessuno può dimenticare le proposte di abolizione degli Statuti Speciali Autonomisti che posseggono solo poche regioni (Sicilia, Sardegna, Trentino, Friuli e Valle Aosta), così come nessuno può negare, dall’altra parte, che sussistono spinte secessioniste sempre più avanzate. Se, dunque, sussistono “ragioni di discriminazione” fra cittadini dello stesso Paese Italia, quale “possibile” integrazione può aversi con cittadini (siriani, eritrei, libici, egiziani, eccetera) che hanno detto (a ragione, oppure no) “addio” alla loro Casa per trasferirsi in suolo italico?
In un Paese come l’Italia dove va avanti inesorabilmente (che lo si voglia ammettere oppure no poca importanza ha) un processo di disgregazione dell’unità nazionale, quale collante può aversi fra genti diverse?
Parlare di integrazione è voler far male a chi ne ha veramente bisogno: l’impatto con la realtà è spesso terribile.
Allora, a nostro avviso, il problema dovrebbe essere affrontato con un’ottica nuova, e non con retorica o opportunismi: si deve parlare di “convivenza” con tutte le connotazioni di civiltà che questa parola comporta. Se si riuscisse a concretizzare una convivenza senza contrapposizioni allora sì, e solo in quel caso, si potrà guardare più avanti per intravedere un futuro migliore per tutti. Passo dopo passo, o, come oggi si dice, step by step, con un lavoro che accomuni e non con contrapposte e strumentali posizioni.