“Di sicuro c’è solo che è morto”: così Besozzi svelò verità su fine di Salvatore Giuliano

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“Di sicuro c’è solo che è morto”. A cento anni dalla nascita di Salvatore Giuliano questo resta uno dei titoli più memorabili del giornalismo italiano, parole che aprono l’inchiesta con cui Tommaso Besozzi, reporter dell’Europeo, gettò i semi del dubbio sulla versione ufficiale circa la morte del bandito, avvenuta a Castelvetrano il 5 luglio del 1950. Un articolo disseminato di interrogativi su circostanze che cozzavano con la versione ufficiale dell’uccisione, che raccontava di uno scontro a fuoco con i carabinieri: secondo quanto gli italiani avevano letto sul “Corriere della Sera”, “Giuliano e’ morto alle 3 e 50 di questa mattina dopo dieci minuti di silenziosa agonia e mezz’ora di fuoco accanito, di fughe, di rincorse e di sparatorie attraverso un labirinto di viuzze e di vicoli deserti”.

Un racconto che cozzava con quello che aveva visto il reporter dell’Europeo (anche se la testata si premurava di precisare che ‘i meriti dei carabinieri sarebbero gli stessi anche se la versione ufficiale non fosse vera): “Perché Giuliano non aveva un soldo addosso? Perché portava una semplice canottiera, lui così ambizioso e, a suo modo, elegante? Perché non aveva l’orologio al polso, quel grosso cronometro d’oro per il quale aveva una bambinesca affezione e che, lo hanno testimoniato in molti, era l’unica cosa che si togliesse, coricandosi, la prima che cercasse al risveglio?” Besozzi evidenziava poi la stranezza delle ferite, con fori tipici dei colpi sparati a bruciapelo mentre altre erano ferite mostravano fori perfettamente rotondi.

La risposta ai dubbi posti dal giornalista sembrava una sola, è cioè – come Besozzi scrisse qualche mese più tardi, nel 1951, – che “Salvatore Giuliano è stato ucciso a tradimento, nel sonno; e il suo corpo è stato portato più tardi nel cortile di via Mannone per la messa in scena finale” in cui “il Capitano Perenze ha sparato su un cadavere”.

I sospetti si accentrarono su Gaspare Pisciotta, cugino di Giuliano, che dormiva quella notte con lui e che viene arrestato dalla polizia il 5 dicembre 1950. Sentendosi tradito Pisciotta il 16 aprile 1951 dall’aula dove si celebra il processo per la strage di Portella della Ginestra e racconta di presunti mandanti della strage e di trattative fra banditi e rappresentanti delle istituzioni: “Banditi, mafia e carabinieri eravamo tutti come una cosa sola, come la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo”, grida negando la versione secondo cui avrebbe incassato i 50 milioni della taglia posta sul celebre bandito. “Io ho liquidato Giuliano senza alcun vantaggio materiale. Sono un bandito, signori, ma un bandito onesto!”.

Ma le troppe versioni di Pisciotta lo resero un informatore ‘inaffidabile’: condannato all’ergastolo per la strage, il cugino di Giuliano chiese nel febbraio del 1954, di parlare con un magistrato per smascherare una volta per tutte i mandanti della strage. Ma la mattina in cui era in calendario l’incontro Pisciotta morì nella sua cella all’Ucciardone; ad ucciderlo una dose di stricnina versatagli nel caffe’ o in una medicina.

Quanto allo schivo Besozzi – che secondo la leggenda Hemingway avrebbe definito il suo ‘erede’ italiano, per la scrittura scarna ed efficace – gli anni successivi gli regaleranno poche soddisfazioni e una forte depressione: al punto da spingerlo a imitare il celebre scrittore americano. Nel 1964, tre anni dopo il suicidio di Hemingway, infatti, il giornalista si uccise a Roma facendosi esplodere sul petto una bomba a mano costruita da solo. (AdnKronos)

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