Esiste un fondo di verità nelle leggende?

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Di Fiammetta Marisol Lombardo

L’uomo può godere realmente della stessa sostanza delle stelle? L’innato desiderio umano di identificarsi e aleggiare verso elementi eterei è racchiuso nei versi del Carme LXVI di Catullo:

«Chi scrutò nell’immenso firmamento e apprese delle stelle, delle albe, dei tramonti
e come il fiammeggiante lume del sole si scuri
e in tempi fissi le costellazioni vengano meno
quel Conone nel chiarore celeste vide me
una ciocca recisa dalla chioma di Berenice» (G. V. Catullo, 66 a.C.)

Appare profondamente suggestivo il fatto che sia una chioma, o per meglio dire la chioma di capelli a raccontarsi in prima persona, ad esprimere la letizia, l’inquietudine e i turbamenti a fronte della sua travagliata metànoia, un divenire che da materia l’ha trasformata in costellazione.

La letteratura storico-mitologica ci riporta che, nel III secolo a.C., Tolomeo III Evergete – re d’Egitto – lascia la sua terra per una mobilitazione militare in Siria. Sua moglie, la mitica Berenice, fa – dunque – voto solenne di consacrare la sua folta chioma ad Afrodite nella speranza che il marito tornasse sano e salvo. Al ritorno di quest’ultimo, i capelli della regina spariscono dal tempio e sarà merito dell’astronomo Conone, l’aver individuato quella chioma nel firmamento, più specificamente in una costellazione che sarà destinata a ricordare per sempre la regina d’Egitto.

Un interrogativo consequenziale è: “Esiste un fondo di verità in questa leggenda?”; parafrasando Platone: “Perché l’uomo è convinto di essere alto sulla terra, là dove vive nelle fosse?”.

Questo processo di trasformazione, nella mitologia greca e romana, si chiama catasterismo. In una cultura in cui qualsiasi tipo di fenomeno astrale sembrava rimandare ad una qualche logica universale, la metamorfosi di un personaggio storicamente rilevante in costellazione significava, per certi versi, osannare quella stessa figura, ma per altri potenziarla sino ad attribuirle una funzione “extra-umana”. Pertanto, a partire dalla metànoia della chioma di capelli non si può generalizzare che la strada per la massima autorevolezza umana sia la sua stessa denaturalizzazione, piuttosto, occorrerebbe lavorare su se stessi al fine di superare se stessi ed emanciparsi dalla servile condizione di essere umano.

«Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita. […] Il conoscimento e il possesso di se medesimo suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande, cioè forte; e per lo più dall’amore.»

(Leopardi, 1845)

Esistono, pertanto, metamorfosi capaci di disorientare l’uomo nel corso della sua vita e metamorfosi che consentono di affermare, invece, il suo predominio sul mondo.

«Ho subìto una metamorfosi, ma non per nuove penne e nuove ali: queste sono sparite e, al loro posto, spero ormai d’avere un paio di gambe per camminare pazientemente sulla terra».

(John Keats, 1848)

Uscire da noi stessi pur rimanendo in noi stessi, questo significa riconoscere la Natura come dimensione totalizzante dell’uomo. L’uomo è Natura, ma non è identico agli esseri naturali: in altri termini, gode di una sua autonomia, di un suo carattere razionale e impetuoso che gli permette di fare esperienza dell’Infinito e di essere Infinito. D’altronde, se Atteone non avesse visto nuda Diana non si sarebbe trasformato in cervo; in generale, se l’anima umana non fosse andata in cerca della natura, non sarebbe diventata essa stessa natura. Non esistono manuali o corsi di alcun tipo che possano magistralmente guidare l’uomo alla sua auto-affermazione.

Non esiste costellazione alcuna che possa fare dell’uomo un essere incondizionato e onnipotente. 

È un atto di coraggio.

In Così parlò Zarathustra, Nietzsche riporta una delle sue considerazioni più icastiche: «Il coraggio ammazza anche la vertigine in prossimità degli abissi: e dove mai l’uomo non si trova vicino agli abissi!» (Nietzsche, 1983). È il coraggio che arma l’uomo ad agire in un certo modo; lo arma, sì, ma non sempre lo nobilita. Alcune decisioni son frutto di un coraggio immaturo, che inevitabilmente concorre al male dell’altro, chiunque esso sia. Ed è sempre in Così parlò Zarathustra che il pastore che stava per morire soffocato a causa del serpente in gola, dovette mordere l’animale per salvarsi. Nietzsche racconta: «Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e – lì si era abbarbicato mordendo. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: “Mordi! Mordi!”» (Nietzsche, 1983).

Soltanto nel momento in cui l’uomo riesce ad imporre la propria – coraggiosa – azione, libero e scevro da qualsiasi condizionamento esterno, sarà capace di vivere la vita nella sua pienezza. Solo allora, il calibro della perfezione sarà tangibile e definibile nel superuomo. Mordere quel serpente – metaforicamente – significa dire sì alla vita. Cos’è che allora è apparso rivoluzionario nella teoria nietzschiana, se l’uomo rimane sempre un essere mortale? Cos’è che rende la sua esistenza irripetibile, se permane immutato il fondamento della sua precarietà?

A dover mutare è la prospettiva con cui si vive la vita: l’uomo nietzschiano abbandona il “ma” per abbracciare l’“assolutamente sì”. Si tratta di accettare la vita così com’è, sposando quell’«attimo» infisso sulla porta carraia in cima al monte dove si trovava Zarathustra. Un’esistenza che vive il tempo senza esserne vittima, una filosofia del presente, dell’immanente. Un’esistenza, però, quella dell’uomo nella sua accezione superomistica, mai privata del desiderio.

L’individuo non si potrà mai divincolare dal desiderio, in quanto egli è chiara manifestazione di questo stato d’animo. Ma attenzione, si è appena definito il desiderio come uno stato d’animo, non come un sentimento. Se volessimo condurre un’analisi introspettiva, focalizzeremmo allora il desiderio in noi stessi come un perenne stato d’animo dell’essere manchevole, che va alla ricerca di qualcosa – di qualcuno. L’unico φαρμακός, l’unico farmaco, capace di curare questa passione è l’esercizio dell’azione senza finalismi. A questo proposito, Pierre Hadot, traducendo lo stoico Epitteto, riporta: «Non cercare di fare in modo che ciò che accade accada come desideri, ma desidera che ciò che accade accada come accade, e il corso della tua vita sarà lieto». (Hadot, 2006)

Un’esortazione, quella stoica, che riecheggia la formula dell’amor fati tanto cara a Nietzsche: quell’impeto amoroso di volere intensamente il reale, quasi in maniera viscerale. Eppure, qui sorgerebbe un’obiezione: l’amore non è tale perché mosso da un incessante desiderio? Come si può, allora, amare la vita per come essa è, astenendosi dal desiderio di un qualcosa?

Ricalcando, dunque, un percorso dialettico il cerchio trova il suo punto di sintesi con il piano astrale: il desiderio è sì, una condizione di de-ficienza umana, ma è altresì il catalizzatore delle più soddisfacenti sensazioni. Così Alessandro D’Avenia riflette su come ogni fase della vita di un uomo sia intrisa di speranza e/o desiderio: «Perché la speranza è desiderio (de-sidera, distanza dalle stelle), la sua mancanza è un disastro (dis-astro, assenza di stelle)» (D’Avenia, 2016).

Il firmamento, il chiarore celeste, gli astri non condividono la stessa natura dell’uomo, ma puntare ad essi, identificarsi con essi, essere il riflesso della loro lucentezza significa trasferire parte di questa stessa luce negli abissi. Solamente quando il pastore avrà il coraggio di mordere quel minaccioso serpente, soltanto in quel momento sarà «Non più un pastore, non più un uomo  –  un  trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!» (Nietzsche, 1983). Fissiamole le stelle, stupiamoci della loro brillantezza, esprimiamo un desiderio quando ne vediamo cadere una, purché quel desiderio possa essere realizzato qui, adesso, sulla terra e non altrove. Impariamo a vivere ora, ininterrottamente mossi dal lume della speranza.

«Sperare non è il vizio dell’ottimista, ma il vigoroso realismo del fragile seme che accetta il buio del sottosuolo per farsi bosco». (D’Avenia, 2016)

Ma chi l’ha detto che l’uomo abbia mai smesso di puntare alle stelle?

Siamo nel 1972 e la BBC trasmette a Top of the Pops David Bowie: capelli arancione carota, trucco leggero e una chitarra tra le braccia, il Duca Bianco intona Starman. Da molti considerato il pezzo che ha cambiato la storia, quell’intreccio fra mistico e quotidiano ha lasciato spazio a molteplici interpretazioni, segnando e facendo sognare generazioni senza tempo. La canzone, ad un certo punto, recita:

C’è un uomo delle stelle che attende in cielo
Ci ha detto di non sprecare questa occasione
Perché lui sa che ne vale la pena
Mi ha detto:
lascia che i bambini lo perdano
lascia che i bambini lo usino
lascia che tutti i bambini ballino

Anche in questo caso, l’uomo delle stelle volge il suo pensiero al mondo della fisicità, esortando a non sprecare questa occasione / Perché lui sa che ne vale la pena.

Autore:

Fiammetta Marisol Lombardo

Riferimenti bibliografici

  • D’Avenia, A. 2016. L’arte di essere fragiliCome Leopardi può salvarti la vita, Milano: Mondadori
  • Hadot, P. 2006. Manuale di Epitteto, Torino: Einaudi
  • Keats, J. 1848. Life, Letters and Literaty Remains of John Keats, Londra: Edward Moxon
  • Leopardi, G. 1845. I Pensieri in Opere, Firenze: Le Monnier
  • Nietzsche, F. 1983. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Milano: Adelphi

Nell’immagine: La chioma di Bere-Nietzsche: «L’uomo è una cosa da superare»

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