Palermo, con il cellulare dal carcere il boss gestiva gli affari del clan

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Dal carcere Ottavio Abbate, uno degli otto indagati del blitz antidroga dei carabinieri di Palermo, gestiva gli affari del clan. Debiti da riscuotere, partite di droga da acquistare e persino la linea processuale che alcuni suoi coimputati avrebbero dovuto tenere. Grazie ai colloqui settimanali e a un cellulare nascosto nella cella il boss impartiva ordini e direttive, assicurandosi il controllo mafioso della Kalsa. E’ quanto emerge dalle indagini dei militari del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale di Palermo che hanno dato esecuzione a 8 ordinanze di custodia cautelare (5 in carcere e 3 ai domiciliari) a carico di altrettanti indagati, accusati di detenzione e cessione, in concorso, di sostanze stupefacenti. I provvedimenti sono stati emessi dal gip del capoluogo siciliano su richiesta della locale Direzione distrettuale antimafia.

Arrestato una prima volta nel 2010 nell’ambito dell’operazione ‘Eleio’ per associazione mafiosa e condannato a 4 anni di reclusione, Ottavio Abbate una volta scarcerato era tornato di nuovo in cella a maggio del 2017 per spaccio di sostanze stupefacenti. A luglio del 2019, mentre era detenuto nel carcere di Agrigento, gli era stato notificato un nuovo ordine di arresto: per gli investigatori avrebbe gestito il traffico di droga alla Kalsa, pur trovandosi dietro le sbarre. E proprio nella casa circondariale della città dei templi il boss si sarebbe occupato di far entrare dell’hashish. E schede Sim all’occorrenza. Il 7 maggio del 2019 Ottavio Abbate chiamava il figlio con il suo cellulare. “Appena l’altra settimana facciamo il colloquio, mi devi portare il cioccolato e glielo devi dare a una persona qui alla stazione”, diceva riferendosi alla droga. Davanti alle titubanze del figlio che spiegava che il clan non aveva al momento droga da inviare ad Agrigento (“pa’, per ora non c’è niente”), il boss spiegava: “E’ per me”, sottolineando che lo stupefacente era destinato a lui e doveva entrare nel carcere. La stessa sera il capomafia richiamava il figlio al cellulare ricordandogli la consegna per la settimana successiva e dicendogli di aver già dato il suo numero alla persona incaricata di ricevere la ‘merce’. “Gli hai dato il mio numero? certo, tutto il carcere ha il mio numero. Chiunque mi chiama…”, si lamentava il figlio. 

Aggiornato quotidianamente dai familiari, Ottavio Abbate si occupava anche dell’amministrazione della ‘giustizia’ del clan, imponendo sanzioni nei confronti di coloro che non rispettavano i suoi ordini. Così, ad esempio, direttamente da carcere era intervenuto per escludere dagli affari Francesco Paolo Cinà, responsabile di aver acquistato da alcuni fornitori napoletani una partita di droga di pessima qualità. Finanziatore dell’acquisto dello stupefacente era stato proprio il figlio Salvatore, intenzionato a recuperare i soldi male investiti. Ricomposta la questione il boss raccomandava di tagliarlo fuori dagli affari: “Lo devi mollare proprio”, avvertiva. E sempre al figlio ordinava: “Vacci e ti fai dare subito questi soldi”. Il riferimento è a un debito che una terza persona vantava con gli Abbate e che non avrebbe riconosciuto, sostenendo al contrario di essere lui in credito con il boss detenuto. “Mi deve dare 7mila euro e ancora non me li ha dati. Mi ha detto che avanza 6mila euro”, raccontava Salvatore Abbate al padre. La risposta era ferma: “Vedi che non avanza niente… che avanza questo fango? Ma come ti permetti gli dici… da dove li avanza… Gli dici: ‘Dice mio padre non te lo levi il vizio’. Vedi di farteli dare senza perdere tempo”.

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