Michele Digrandi, pittore dello “Splendor majestastis naturae”

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Di Giuseppe Firrincieli

Il nostro Tour d’arte continua, anche se per il momento non possiamo allontanarci da Hibla Minor. Un dipinto dal titolo “Inno alla Vita” ci sorprende e, come una calamita ci attrae e ci conduce in un mondo reale “d’altro dì”. Oggi, ahimè, sopraffatto dal vortice della frenesia qualunquista.

Sì, con gli occhi di un bambino, cerco di superare l’era del fatalismo e dei momenti di rassegnata passività agli eventi avversi, per entrare, sentimentalmente, in un turbinìo di emozioni, dove una estasiante “imago naturae” appare come nostra “compagne de voyage”.

Un cocco di mamma, però questa volta di gallina, si schiude ed un pulcino appare, un po’ smarrito e, a fatica, porge lo sguardo, dopo aver punto col suo esile beccuccio la sommità del candido guscio. Ecco che sorge la vita. Ecco che l’unione di Madre natura con la vita, affiora in uno splendido effetto “de blanque”. L’autore, nel dipinto, intona semplici, ma luminosi cromatismi che appaiono insiti nel “candido”, sprigionando la voglia di ammirare un paesaggio rupestre.  In tono virgineo, sorge  un angolo di forza generatrice incontaminato, dove distese campagne iblee, mai aggredite e nemmeno sbeffeggiate dalla violenta brutalità umana, si affacciano. Una nuvola bianca splende sfrecciante nell’intenso azzurro del cielo, le pietre di calcare bianco dei muri a secco, le foglie verdi di un logoro, nerboruto e secolare carrubo vanto degli Erei e degli Iblei, si pongono in una coreografia armonica e si mostrano con fierezza, nel donare  la gioiosa accoglienza alla vita.

Ancora, come per incanto, e come se fossimo davanti ad un presepe dove i pastorelli danno il loro benvenuto a Gesù, l’ autore nel dipinto non si sottrae ad arricchire l’Inno alla Vita, con ancora esaltanti meraviglie della natura: una farfallina, pronta a svolazzare, un lombrico, una lucertola, una chiocciolina che affiorano con coraggio sul muro a secco, e poi un passerotto pronto a donare il suo  gioioso cinguettio; tutti pronti, a salutare il neo benarrivato pulcino.

All’apparenza, Il dipinto si affaccia di poco al Surrealismo, si a  quella vena pittorica che ha il pregio di costringere lo spettatore ad andare al di là di ciò che l’occhio vede per mostrare realtà diverse che non possono e non devono essere toccate. In verità, l’autore varca questo filone, si affaccia persino a quello magico di Chagall; li scavalca entrambi e, non contento, conduce lo sguardo di chi osserva, su quello dei sogni e delle fiabe, ovvero l’arte di Salvador Dalì. Per nulla appagato, il Digrandi prosegue per la sua strada artistica, non facendo propri, richiami di vecchi e moderni filoni artistici.

Quando, ad un tratto, ti accorgi che va a toccare “le corde”, con veemenza, del Realismo metaforico. Si, con  Michele Digrandi,  non possiamo fare a meno di inoltrarci nell’affascinante filone operistico del capofila, Wladimr Kush, pittore e scultore russo contemporaneo surrealista, noto anche per essere stato “rapito” artisticamente dagli “States”, ma costretto, per gelosia moscovita, a ritornare in patria e fortemente deciso a dire che le proprie opere appartengono al realismo metaforico.

Ma si! Anche l’artista ibleo sfonda l’ arte del “Surrealismo”, avvicinandosi di molto a Wladimr Kush e, va deciso a centrare l’obiettivo del “Realismo”, servendosi magari di metafore; la sua originalità sta nel dipingere l’amore per la natura mediterranea, ovvero di casa nostra, lanciando un grido di allarme, volto alla difesa dell’Habitat, a tutto tondo.

A questo punto, appare d’obbligo riportare una delicata nota sul dipinto “Inno alla Vita” della nota recensionista Giovanna Cappuzzello:

“Un’ondata di ossigeno puro aleggia nella realistica rappresentazione della campagna ragusana, ove il fruitore si sente quasi catapultato vicino ai piccoli animaletti sul muretto a secco e al tenero pulcino che sbuca dal suo guscio, all’ombra di un maestoso carrubo.

L’albero è forse il simbolo del Dio Creatore che, con le sue possenti braccia avvolge, in un panteistico afflato, tutti gli essere viventi e non, per proteggerne la incontaminata bellezza? Eppure, ad un più attento esame, come protagonista assoluto dell’opera si impone simbolicamente il giallo e curioso pulcino che, appena nato, già si lascia incantare dalla luce e dalle meraviglie del luogo circostante. E’ come se quest’ultimo raffigurasse non solo un inno alla vita, intesa come dono insostituibile e prezioso da rispettare e valorizzare, ma anche un velato invito a “rinascere” dopo ogni interiore tempesta, per ritrovare quella eterna, universale Bellezza che rende  ogni attimo degno di essere vissuto”.

Michele Digrandi, ama dipingere con “i segni”, ovvero manifestare in pieno il desiderio costante che i suoi dipinti possano essere condivisi nella interezza della sua passione d’arte visiva; tanto che il culto del richiamo alla partecipazione universale, patrimonio triskeliano, diventi anche comunicazione visiva. I “segni” richiamano la comunicazione unanime, che nella Triskelia non scompare ed in proposito, il grande Giuseppe Pitrè, ci aiuta a capire: 

“Cum (Hieron) inter alia dictu immitia. Syracusanos mutuis culloquiis uti vetaisset, jussitque ut si comunicanda essent, que pedum, manuum, oculorumque nutibus ac indiciis significarentur mox saltatores necessitas peperit. Donde non se ne trarrà la ingenua conseguenza che i Siracusani sieno stati gli inventori del parlar per cenni, ma piuttosto che quando più si scende al mezzogiorno, tanto più si trova sviluppato il linguaggio dÈ segni, che nel nostro popolo, per la vivezza dÈ suoi sentimenti, è maggiore che in altri”.

Per comprendere l’ardore del Digrandi nel dipingere “Linno alla Vita”, e quindi alla fecondità, non possiamo fare a meno di entrare persino in alcune delle tante pieghe dimenticate della nostra storia:

I primi abitatori dell’isola, a Levanzo ma anche nei dintorni dei “Mazzareddi”, oggi Marina di Ragusa, furono “zoolatri” come tutti i preistorici e, tra le divinità idolatrate, pare vi fu una misteriosa Gerèatide che era il simbolo della fecondità. Non vi sono dati certi ancora che la dea Gereatide si venerasse a Nasso e nel tempio di Hibla Major, alle pendici dell’Etna e, forse, in molti altri centri. Una comune ritualità consisteva, però, nell’offerta degli organi riproduttivi di animali sacrificati, che venivano appesi assieme alle corna e ad amuleti magici, su alberi ritenuti sacri perché consacrati alla stessa divinità. La città di Hibla Major era soprattutto nota per il suo esercito di “sacerdoti” dediti al culto della divinità della fecondità e all’interpretazione dei sogni dei pellegrini. Ebbene, una traccia dell’antico culto indigeno si ritrova ancora oggi, tra i pastori dell’isola, ed in particolare nelle campagne iblee, con l’offerta votiva delle “gerre” (le interiora degli agnelli). Queste vengono ancora appese sui rami di un albero secco che si trova abitualmente nello steccato antistante la mannara. La consuetudine vuole che le frattaglie non vengano date subito ai cani, ma vengano lasciate appese a quell’albero chiamato “staccia”. Non si conoscono le sembianze della dea Gereatide, o se, addirittura, la stessa si possa riconoscere nella statua del VII secolo a.C., la “kourotrophos” di Megara Hiblaea che viene raffigurata mentre allatta due gemelli. Probabilmente le sue origini si possono riscontrare in altre divinità generatrici come nella fenicia Ishtar (Astarte), nella sumerica Inanna di Uruk, e nella Min degli Egiziani. Fermo resta che tutte venivano accomunate dal culto della vita, della procreazione e della fecondità, fino a quando con i primi insediamenti ellenici dell’ VIII secolo a.C., i calcidesi identificarono Gerèatide con Afrodite, forse anche con Iside e per lunghi secoli con Astarte.

Ma chi è Michele Digrandi?

Michele Digrandi è un artista contemporaneo, nato a Ibla ma vive a Ragusa e ci racconta:

“Ho insegnato Disegno e Storia dell’Arte negli Istituti Superiori,ordinario di Arte e Immagine presso la S. M. “Vann’Antò” di Ragusa dal 1990 al 2017.                          

Dal 1972 al 1981, oltre ad una ricerca personale nel campo pittorico, mi sono dedicato all’attività di musicista. Dall’‘82 decido di dedicarmi principalmente all’attività pittorica, anche se spesso, in vari recitals, ho accompagnato alla chitarra alcuni fra i maggiori poeti contemporanei siciliani fra cui C. Assenza, I. Buttitta, R. Giacone, F. Höefer, A. Inserra, E. Leopardi, E. Mandarà, C. Pirrera, L. Zinna, S. Saluzzi, N. Scammacca, ecc., la pisana R. Gianbene e il maltese O. Friggeri.

Dal 1985 inizio ad esporre e a partecipare con maggiore frequenza a varie manifestazioni d’arte, sia in Italia che all’estero (Agrigento, Biella, Campobasso, Catania, Comiso, Ferrara, Firenze, Gela, Hong Kong, Lamezia Terme, L’Aquila, La Valletta – Malta, Los Angeles, Mar. di Ragusa, Messina, Milano, Modica, Monreale, Napoli, New York, Nice, Nocera Inf. (SA), Palermo, Parigi, Pistoia, Pizzo Cal., Ragusa, Rep. di S. Marino, Roma, Sanremo, S. Pietro in Vincoli (RA), Santhià, Venezia, Viareggio, Vittoria, ecc.) riscuotendo consensi di critica, di pubblico. Mie opere si trovano in diverse collezioni pubbliche d’Italia e in molte collezioni private sia in Italia che all’Estero”.

Mario Luzi scrisse di lui: “La sua pittura è matura ed equilibrata per la capacità di fondere insieme una verve fantastica ad un sottile lavorio sulla realtà e inoltre riscontro una rara musicalità del segno e del colore”.

Danilo Dolci scrisse ancora:”Michele di Grandi è un pittore non di chiasso, ma di sostanza e in diverse opere si nota un segno iperbolico e un cromatismo dinamico”.

Sorge spontaneo un dubbio: Ma il Comune di Ragusa è ostico alla valorizzazione di Opere d’arte e alla possibilità di apertura di mostre permanenti di autori del luogo? E’ un peccato non tutelare opere “di sostanza”, come ci suggerisce Danilo Dolci. E, ancora, una colpa più grave è quella di sottrarre beni artistici alla vista di turisti che vengono in questa terra “Speciale”.

Non posso fare a meno di chiudere con un’ode all’ arte del Maestro Michele Di Grandi:

LA MIA  TERRA, DA  UNA VAPORIERA AL  SUO  ULTIMO VIAGGIO

Di Giuseppe dei Firrincieli

Mia terra dalle vestigia fastose, costante mia visione.

Gemma donata da un Dio buono ad una genesi pura,

creata con sapiente passione e

brillantata da mani laboriose,

a stento sottratta ad abili flagelli,

orditi da Madre natura, ma anche

da diaboliche menti estranee.

Con indicibile gioia,  … ti rivedo!

Non solo, attraverso le vie del ricordo,

per la lontananza forzata,

ma penetrando veramente la tua immagine.

L’occasione?  Oggi, un posto vicino al finestrino

di quella vaporiera al suo ultimo viaggio che vidi e

sentii sbuffare, bambino …

Quei pochi cavalli arrugginiti  che  mordono le briglie,

come frustrati a sangue da un nero ferroviere,

tirano a forza quella dimenticata carrozza;

sedili di legno, rallegrati da tele rattoppate

di spesso cotone, scolorite e inamidate

dalla polvere del coke infuocato.

Su questi stessi margini ciottolati,

a mani ondeggianti, sprigionavano, un tempo, i ragazzi,

urla d’ignara allegria che, pure,

confortavano gli emigrati in partenza.

… Volti bianchi, addolorati e spenti,

scalfiti da lacrime profonde.

Appena uscito da quel monte nano,

aromi di profumi antichi, familiari,

riconosco, grido … la mia terra!!!

Col volto stanco, triste e segnato, mi appare.

Il bassorilievo dei suoi monti protettori,

affetti da un verde ingrigito di logoro carrubo,

si specchia su un dedalo di viuzze, sinuose,

affascinanti e immense, libere e dormienti;

su piazze mistiche, deserte

con altari senza fiori, oratori senza cori;

su case, dolci dimore secolari, seraficamente arroccate …

… chiuse e vuote!

Anche il  San Leonardo, grosso torrente e …

vita per il possente flutto d’Irminio,

ha perduto la sua linfa irruenta!

…  Che aspetto disarmante, che delusione profonda!

Che voglia di infondere nuovi aneliti di vita!

Caro paese, dove la vita partorì arte,

ti hanno strappato l’anima,

 in lungo e in largo, … sei abbandonato!

Un fievole lamento di speranza, con l’umido libeccio si innalza,

un’eco … mi pare, si  spande:

“Perché almeno tu  non torni?”.

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