Generale De Lorenzo, Piano Solo: ”Nessun progetto di golpe”

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Lo storico Pardini pubblica i documenti sul prossimo numero della rivista “Nuova Storia Contemporanea”: editi integralmente i piani di emergenza per il mantenimento dell’ordine pubblico e delle libertà democratiche del 1964

Il cosiddetto “Piano Solo” predisposto dal generale Giovanni De Lorenzo, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, che sarebbe stato all’origine del presunto tentativo di colpo di Stato del 1964, non è mai esistito e la documentazione ad esso più o meno “artatamente collegata” rientrava nella predisposizione di interventi per il mantenimento e la tutela dell’ordine pubblico e del corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, nella deprecabile ipotesi che movimenti di piazza e proteste organizzate potessero compromettere il regolare andamento della vita politica nazionale e dell’ordine costituzionale. E’ quanto sostiene lo storico Giuseppe Pardini, professore associato di storia contemporanea dell’Università degli studi del Molise, nel saggio dal titolo “Perché il fatto non sussiste. La vera storia di un presunto golpe: giugno-luglio 1964” in uscita sul nuovo fascicolo della rivista “Nuova Storia Contemporanea” (Le Lettere), diretta dal professore Francesco Perfetti.

Nel saggio vengono pubblicati per la prima volta integralmente i cinque documenti che, allo stato della ricerca, costituiscono i piani di emergenza per il mantenimento dell’ordine pubblico e delle libertà democratiche (passato alla storia con il nome posticcio di ‘Piano Solo) redatto dalle tre divisioni dell’Arma dei Carabinieri nel maggio 1964. Tale documentazione, spiega Pardini, permette di verificare “con puntualità e precisione” le misure esatte previste dal ‘Piano Solo’ e di appurare quanto gli “omissis” apposti dal governo alle inchieste sugli avvenimenti del giugno-luglio 1964 non riguardassero parti del “Piano” stesso (peraltro sempre rimasto allo stato embrionale di ‘studio’, e quindi di bozza), ma elementi sensibili per la sicurezza dello Stato.

“Appare quindi oggi piuttosto evidente la forzatura polemica, e quindi politica, che venne montata, inizialmente per di più su una ridotta parte della stampa nazionale soltanto, in merito al presunto ‘golpe’ che avrebbe potuto essere attuato in seguito alla crisi politica nell’Italia dell’estate del 1964”, scrive Pardini nel saggio.

Pardini precisa che si trattava soltanto di una bozza di piano generale, costituita dalla sommatoria, senza ulteriore integrazione tra loro, delle tre bozze (anch’esse) di piani redatti autonomamente dalle tre Divisioni dei Carabinieri (quella di Milano, quella di Roma e quella di Napoli), e le bozze dei due piani relativi alle ‘Aree vitali’ di Milano e di Roma. Quel centinaio di fogli non vennero posti alla conoscenza integrale dei vari organi inquirenti (ad eccezione della Commissione Lombardi, che poté avere conoscenza integrale del tutto) perché contenenti notizie riservate sulle modalità difensive dell’apparato dello Stato e dell’Arma dei Carabinieri e che non potevano, necessariamente, essere divulgate e poste alla conoscenza del pubblico e, magari, dei servizi segreti stranieri, dei Paesi considerati nemici e delle loro quinte colonne in Italia.

Per questo tali ‘piani’ vennero resi noti con molti ‘omissis’, cioè con molti tagli alle parti sensibili, fatto però che consentì, in mancanza di dati e di fatti evidenti, ulteriori speculazioni su quegli aspetti la cui conoscenza non venne consentita pienamente. “Gli omissis – scrive sempre Pardini – valsero insomma ad accrescere la convinzione che molto di quanto denunciato corrispondesse alla verità e che non si potesse rendere noto solo per ragioni di opportunità politica. Nella mancanza di prove e di evidenze fattuali, si rifuggiva ipotizzando che la verità si nascondesse dietro gli omissis. Ma in realtà, con la lettura integrale dei documenti redatti per il cosiddetto ‘Piano Solo’, anche tali ipotesi sarebbero venute a cadere”.

Lo storico Pardini spiega che lo studio predisposto dall’Arma dei Carabinieri prendeva le mosse dal modus operandi dei presunti eversori (“Potenziali reazioni del probabile avversario: il probabile avversario reagirà appoggiandosi alla sua organizzazione di struttura e si manifesterà quasi sicuramente con i procedimenti d’azione della guerriglia”), strutturando la difesa della ‘Aree vitali’ di Roma e di Milano intorno ai punti nevralgici delle città e cercando di prevenire le azioni dei manifestanti. Da qui l’occupazione delle sedi dei partiti della sinistra (Pci e Psi) per impedire la stabilizzazione dei centri logistici e di comando; la difesa degli importanti edifici adibiti alle comunicazioni radio-televisive e, nella capitale, dei palazzi Chigi e Quirinale. Altri aspetti, complementari dei piani, erano demandati a realizzazioni a parte, e quindi o non erano ancora stati realizzati oppure appartenevano a progetti precedenti.

Una delle questioni più dibattute aveva sempre riguardato il presunto prelevamento (enucleazione) di eventuali persone ritenute pericolose per l’azione eversiva: ebbene, sostiene Pardini, nel cosiddetto “Piano Solo” “tale aspetto non viene toccato e si trova presente soltanto nella bozza del Piano relativo alla città di Roma, e neppure in tutto il piano, ma esclusivamente nella parte della città indicata come Settore A (il centro storico, dove si trovavano le sedi di governo) e concerneva sicuramente un numero molto contenuto di eversori di indubbia pericolosità, perché a guardia di esso erano adibiti appena 30 carabinieri, cui spettava il compito della sorveglianza dopo il fermo o l’arresto e l’allontanamento dalla capitale a bordo di qualche elicottero”.

Commenta Pardini: “L’attenta lettura integrale degli elaborati del cosiddetto ‘Piano Solo’, inoltre, conferma che esso era stato approntato al fine precipuo di prevenire e contenere manifestazioni di piazza, moti di protesta a carattere politico-eversivo, quindi per difendere le istituzioni democratiche della Repubblica e non per sovvertirle”.

In sostanza si trattava di attuare un concetto cardine del pensiero del generale De Lorenzo, cioè che le forze dell’ordine dovessero passare gradatamente da un’azione preventiva statica a un’azione preventiva dinamica; il piano doveva servire per garantire l’ordine pubblico e la legalità costituzionale per 2 giorni: oltre le 48 ore o la forza della protesta politica sarebbe scemata o sarebbe occorso anche l’intervento di altre forze armate.

Le polemiche sulla vicenda del “Piano Sol”, come è ormai ben noto, non furono coeve ai fatti, ma esplosero tre anni dopo, nel maggio 1967, in seguito a una inchiesta giornalistica apparsa sul settimanale “L’Espresso” con le firme dei due importanti giornalisti Eugenio Scalfari (direttore) e Lino Jannuzzi. Da allora si ebbero ben tre commissioni ministeriali d’indagine, due processi penali, una commissione parlamentare d’inchiesta, proprio intitolata “Sugli eventi del giugno-luglio 1964” e che si concluse il 15 dicembre 1970 dopo quasi 20 mesi di lavoro, con una formula che avrebbe dovuto tagliare la testa a ogni ulteriore speculazione e illazione.

Queste furono le parole con le quali la relazione di maggioranza chiuse la sua inchiesta, commenta Pardini, “indubbiamente in grado di fugare molti dubbi e molti interrogativi che comunque, in seguito a una scandalistica campagna di stampa”, avevano pervaso l’opinione pubblica in generale e diviso le valutazioni politiche: “La Commissione parlamentare conclude, dunque, ritenendo che l’esame sereno dei quattro documenti che insieme integrano quello che il generale Lombardi chiamò il ‘Piano Solo, risultano inequivocabilmente predisposti non già in esecuzione di un programma eversivo, ma, al contrario, in considerazione della ipotesi di una situazione di emergenza che avesse obbligato l’Arma ad assolvere da sola la responsabilità della tutela dell’ordine pubblico e del libero funzionamento dei poteri legittimi”.

Osserva ancora Pardini: “Del resto tali affermazioni non erano estemporanee, ma facevano seguito a simili considerazioni” che erano state formulate sia dalla precedente inchiesta compiuta dalla Commissione ministeriale presieduta del generale Luigi Lombardi (ex comandante generale dei Carabinieri), sia dalla sentenza del processo penale iniziato a seguito di querela presentata da Giovanni De Lorenzo contro il settimanale “L’Espresso» e i due giornalisti Scalfari e Jannuzzi. Quella sentenza, non solo condannò al massimo della pena Scalfari, e Jannuzzi, oltre al settimanale, con drastiche espressioni (“risibili affermazioni”, “fantasiose e infondate ricostruzioni effettuate”, “informazioni destituite da ogni fondamento”, “fatti basati su opinioni supposte e personali palesemente infondate”), ma ebbe parole molto gravi, nelle sue motivazioni (richiamando anche l’azione esercitata nel processo dal pubblico ministero, Vittorio Occorso, il quale aveva ritenuto sufficienti gli elementi a discarico della difesa e non aveva invero richiesto i necessari approfondimenti, forse perché concentrato soprattutto sull’aspetto relativo alla libertà di stampa e di opinione): di fatto, a sostegno degli avvenimenti raccontati non esistevano prove di nessun genere ed essi si basavano soltanto su semplici illazioni e deduzioni prive di riscontro fattuale. I precisi riscontri effettuati dal tribunale (facendo anche ricorso alle relazioni d’inchiesta effettuate precedentemente dai generali Beolchini e Manes) avevano permesso di accertare i fatti e di concludere che “nulla delle gravi accuse formulate aveva trovato riscontro nelle prove raccolte, nulla che potesse accreditare neppure come ipotesi le preoccupazioni avanzate”. (AdnKronos)

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