Anatomia della rappresentazione cinematografica della morte del bandito Giuliano

di Alessandro De Filippo

Nella costruzione delle immagini, il nostro lavoro consiste essenzialmente nel non filmare qualsiasi cosa in qualsiasi modo. Uno che costruisce delle immagini non fa l’illustratore, costruisce una prospettiva.

Jean-Marie Straub

1. Le prime immagini – fotografiche e cinematografiche – che registrano il cadavere di Salvatore Giuliano sono quelle di Ugo Saitta, operatore di ripresa e regista, che collabora come inviato in Sicilia per la Settimana Incom. Il regista catanese viene chiamato per girare un servizio, che uscirà sul cinegiornale n. 466 del 12 luglio 1950. Sui documenti del Sottosegretariato per lo Spettacolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri appaiono già i primi problemi:

La Settimana Incom n° 466. Delibera con Protocollo 8223 del 13/07/1950

Revisionato il film si esprime parere favorevole alla proiezione in pubblico a condizione che i fotogrammi riprendenti il cadavere di Giuliano sulla barella, siano ridotti alla parte iniziale e precisamente fino al punto in cui la barella viene adagiata a terra[1].

Questa risoluzione, dichiaratamente censoria («a condizione che…»), appare legata alla volontà dell’ufficio di valutazione di non permettere la diffusione nelle sale cinematografiche delle immagini più crude, che indugiano sul cadavere del bandito Giuliano. Infatti, la sequenza che l’Ufficio Revisione chiede di tagliare dal cinegiornale è quella che si concentra su alcuni particolari del cadavere, come la cicatrice che ne determina il riconoscimento, ma anche i fori d’entrata delle pallottole e un primo piano del volto di Giuliano. Tale delibera viene però immediatamente impugnata dall’azienda INCOM di Milano, che risponde con una lettera, datata 13/07/1950 (stesso giorno della delibera originaria), e indirizzata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Direzione Generale dello Spettacolo:

Il sottoscritto, dott. Sandro Pallavicini […] essendo stato avvertito che la Commissione di prima istanza di revisione cinematografica, ha approvato la “Settimana Incom n. 466” a condizione che sia tolta la scena raffigurante il cadavere del bandito Giuliano, chiede che detta “Settimana n. 466” sia sottoposta alla Commissione di Appello, in quanto non si ravvisano elementi tali che possano giustificare la condizione imposta dalla Commissione di prima istanza. Anzi l’apparizione del cadavere, e la constatazione della sua identità, dirimono tutte le supposizioni createsi, ed ancora una volta dimostrano l’opera della Giustizia umana. Trattandosi di un film di attualità, la cui data di edizione non può essere postergata, prega la massima urgenza e con osservanza[2].

Due sono le indicazioni che ricaviamo dalla lettera dell’azienda milanese: la prima, concerne il diritto-dovere dell’informazione. Bisogna mostrare tutti i più piccoli dettagli del corpo, per dimostrare l’identità del pericoloso criminale. La seconda indicazione rivela invece un sostrato ideologico non indifferente: mostrare il cadavere del bandito sconfitto è una testimonianza che lo Stato sia riuscito a fare Giustizia sulla terra. Le immagini del corpo senza vita di Giuliano rappresentano quindi la vittoria dei Carabinieri sui banditi[3]. Di notevole interesse risulta anche la precisazione finale che fa leva sul valore di attualità delle immagini, che determinano l’urgenza di una risposta del Sottosegretariato. Il valore di quelle sequenze registrate da Ugo Saitta risiede infatti anche nella specifica aderenza alla cronaca quotidiana; un’autorizzazione rinviata di qualche giorno ne avrebbe ridotto l’interesse da parte del pubblico. A questa lettera circostanziata, risponde il giorno dopo il Sottosegretariato:

Modifiche al visto corrente del 14/07/1950

Il giorno 14 luglio 1950 la Commissione di appello, revisionato il film, ha concesso il nulla osta per la proiezione in pubblico senza limitazioni[4].

Di quegli stessi giorni è l’articolo di Tommaso Besozzi, uscito sul n. 29 de «L’Europeo» del 1950, con un titolo significativamente esplicito: Un segreto nella fine di Giuliano. Di sicuro c’è solo che è morto. Di sicuro c’è anche che Ugo Saitta, arrivato nel cortile dell’avvocato Gregorio Di Maria prima che albeggiasse, subito dopo la morte del bandito (almeno secondo la ricostruzione ufficiale che ne danno i Carabinieri), racconta alla moglie e, successivamente, in più occasioni alla figlia e al suo collaboratore Riccardo Manaò[5] che le immagini registrate quella notte non sono solo quelle montate nel servizio della Settimana Incom. Alcune sequenze, infatti, a suo dire vennero sequestrate e fatte sparire dagli inquirenti. Sempre secondo Saitta, lo stesso Ministro dell’Interno Mario Scelba si occupò di coordinare i Carabinieri nella “comunicazione” degli eventi riguardanti sia lo scontro a fuoco, che le ore immediatamente successive alla morte del bandito Giuliano. C’è un gran numero di incongruenze tra la versione ufficiale fornita dalle forze dell’ordine e le ferite sul corpo di Giuliano. Ci sono anche incongruenze che riguardano orari e testimonianze, tra le quali quella del cugino di Giuliano, Gaspare Pisciotta, che successivamente si autoaccusò della morte del bandito[6]. Lo stesso Pisciotta, che minacciava clamorose rivelazioni sull’accaduto, venne presto avvelenato in carcere da ignote mani assassine.

2. Nel 1954, Giuseppe De Santis scrive una sceneggiatura per un film su Portella della Ginestra. Il regista romano è un quadro del PCI e affronta la questione rivelando una serie di incongruenze tra la versione ufficiale della morte del bandito Giuliano, lo scontro a fuoco con il Capitano dei Carabinieri Antonio Perenze[7], e quella reale, che appare maggiormente come una “esecuzione”. Il PCI, che in quegli anni sta chiedendo insistentemente alla DC l’invio in Sicilia di una commissione di inchiesta sulla mafia, impone a De Santis di abbandonare il progetto, che resta in fase di sceneggiatura[8]. Un film incentrato sulla strage di Portella della Ginestra, strutturato come lo aveva pensato De Santis, avrebbe infatti esacerbato le tensioni tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana, proprio per le sottaciute e fin troppo evidenti relazioni tra la mafia e Giuliano nella strage del primo maggio.

Solo sei anni più tardi, nel 1960, Francesco Rosi decide di realizzare il suo film Salvatore Giuliano (uscito poi nel 1962). Il film viene appoggiato dal PCI e assume una posizione aderente alla verità giudiziaria sulla storia della fine del bandito Giuliano. Appare curioso come il PCI abbia dapprima rifiutato il film di un regista organico al Partito, come De Santis, autore già celebrato e nel pieno di una rigogliosa carriera[9], e abbia invece sostenuto il film di un regista allora poco noto come Rosi, alle prime prove cinematografiche[10].

Secondo il regista Paolo Benvenuti – che ha più volte cercato un confronto diretto con Francesco Rosi, in numerose occasione pubbliche –, attraverso questo film il PCI avrebbe voluto inviare “un messaggio” alla DC: se fosse partita la commissione d’inchiesta sulla mafia in Sicilia, la strage di Portella della Ginestra non sarebbe stata indagata, perché il PCI avrebbe accettato la versione ufficiale uscita dalla Corte d’Appello del processo di Viterbo.

Erano anni che il Partito Comunista e il Partito Socialista volevano costituire la Commissione Parlamentare Antimafia, e la DC nicchiava, non voleva, perché sapeva bene, la DC, di avere un cadavere nell’armadio di Portella della Ginestra […]. Ma ecco che il messaggio che il PCI manda alla DC attraverso Rosi è chiarissimo: state tranquilli, amici e compagni della DC, noi comunisti sulla strage di Portella della Ginestra diciamo questo; cioè circoscriviamo il problema di Portella della Ginestra, esclusivamente alle responsabilità di Salvatore Giuliano. Per cui possiamo tranquillamente costituire la Commissione Parlamentare Antimafia, perché tanto su quella strage noi abbiamo steso un pietoso velo di silenzio. Questo è il senso del film di Rosi[11].

Di fatto, dopo il film, parte la commissione d’inchiesta: la DC, che era stata sempre restia a discutere questa richiesta da parte del PCI, accetta di buon grado l’avvio delle indagini. E la commissione non affronta la strage di Portella della Ginestra.

A Locarno, negli anni Novanta, in occasione del Festival del Cinema, Francesco Rosi in un’intervista dichiara che grazie al suo film ha avuto inizio la commissione d’inchiesta sulla mafia in Sicilia. In due recenti contatti telefonici con chi scrive[12], Francesco Rosi ha precisato che su Giuliano non ha nulla da aggiungere rispetto al film che ha girato e al libro di Tullio Kezich[13] che ne è seguito, perché in quel film lui si è attenuto strettamente alle verità emerse dal processo di Viterbo. Non ci sono interpretazioni, né ipotesi, né illazioni nel suo lavoro: il film si limita a mettere in forma di racconto ciò che i magistrati hanno appurato, non la verità storica – ha più volte tenuto a sottolineare Rosi –, ma la verità processuale.

C’è una sequenza, però, nel film Salvatore Giuliano, che non trova alcun fondamento nei documenti del processo che riportano le accuse sul bandito e sulla sua banda. Nonostante i 411 delitti di cui viene indicato come responsabile, infatti, non risulta nulla sulla scena che vede Salvatore Giuliano sparare sui suoi concittadini di Montelepre quando essi si avviano alla fontana del paese. È lo stesso Paolo Benvenuti a segnalare questa incongruenza con le “carte” processuali.

La cosa interessante da dire sul film è che è stato girato nel 1960 […]. Chi c’era in Italia a governare nel 1960? C’erano Scelba e Tambroni […]. Lo stesso Scelba di cui parliamo oggi è al governo insieme a Tambroni in un governo di centrodestra nel 1960, quando Rosi gira il suo film Salvatore Giuliano. La cosa interessante di quel film è che è un film costruito sulla menzogna. Una menzogna proprio rappresentata scenicamente da Rosi… e cioè il fatto che Salvatore Giuliano era un bandito cinico e sanguinario che sparava regolarmente su donne e bambini. C’è una scena all’inizio del film[14], che illustra una piazza, una strada di Montelepre – il paese di Salvatore Giuliano – dove arriva il messo comunale col tamburino che dice: «sentite, sentite, sentite…» il comando militare, che sta occupando il paese, permette alle famiglie di uscire di casa – sono tutti chiusi in casa per il coprifuoco – e di andare alla fontana ad attingere acqua. Si vede, sempre con la stessa ripresa dall’alto, dal punto di vista della montagna che incombe su Montelepre. La montagna dove c’è Giuliano e dove prima si è visto piazzare una mitragliatrice. La gente che esce dalle case, si avvicina a questa fontana e comincia a prendere l’acqua. A un certo punto, quando tutti sono lì raggruppati, parte TATATATATA… (colpi di mitragliatrice), e si sentono grida di donne, bambini, gente che corre. E la macchina da presa di Rosi, TRAC, si gira e inquadra la montagna Monte d’Oro, dove in cima c’è la bandiera di Salvatore Giuliano. È chiarissimo, il significato è molto semplice: Giuliano era un terrorista che sparava su donne e bambini.

Questa scena è all’inizio del film e ha un ruolo preciso, quello di identificare Giuliano in un bandito cinico e perverso, che sparava su donne e bambini. In modo tale che, quando poi arriverà la strage di Portella della Ginestra, Rosi non fa vedere Giuliano che spara, ma fa vedere Giuliano con i suoi uomini che partono da Montelepre e vanno verso Portella della Ginestra a sparare. Si vedono questi spari e si vedono di nuovo donne e bambini che corrono, uccisi, che scappano. Alcuni uccisi, alcuni feriti, e altri che scappano. Questo perché bisognava costruire nel 1960 un mostro, che era Salvatore Giuliano, e che era l’unico responsabile della strage di Portella della Ginestra. Era l’unico responsabile d’accordo con i mafiosi e i proprietari terrieri siciliani. Cioè in modo da circoscrivere il problema della strage esclusivamente al bandito Giuliano e ai mafiosi della zona. Perché è importante questo film? Perché è un messaggio politico che il PCI manda alla DC di Scelba e di Tambroni. Ma perché si manda questo messaggio nel 1960? Ce lo dice Rosi in una delle sue ultime interviste. E Rosi… se fosse un uomo disposto a discutere con me, e a spiegarmi perché ha messo quella scena nel suo film, assolutamente falsa… visto che lui si rifà, per il suo film, agli atti del processo di Viterbo e alla cronaca dei giornali dell’epoca. Questo dice lui, nelle sue interviste. Mi deve dire, il signor Rosi, da dove ha tratto la scena in cui Salvatore Giuliano spara su donne e bambini a Montelepre, intorno alla fontana. Quella scena è falsa, è una mistificazione, è una costruzione cinematografica per costruire appunto, il personaggio e l’impatto sanguinario, ma assume la funzione drammaturgica di anticipare la strage di Portella della Ginestra[15].

Un film, al di là della storia che racconta, prende posizione nel modo in cui la racconta. E ci sono una serie di prepotenti elementi di interesse, nelle scelte di linguaggio del cinema di Francesco Rosi, che riguardano proprio il suo stile di regìa. L’approccio di quello che poi prenderà il nome di cinema d’inchiesta è eminentemente realistico. Il cinema politico, per svellere la crosta di perbenismo che risiedeva sulla produzione cinematografica italiana di quegli anni, decide di ibridarsi con le tecniche del documentario[16], sia per le riprese che per il montaggio. Il risultato è una aderenza formale alla realtà che pone le basi per una confusione di piani, tra la riproduzione dei documenti e la ricostruzione narrativa dei fatti.

Il lavoro che ho fatto con Visconti, sin dalla Terra trema che è il mio primo film, come assistente, e poi Bellissima, dove ho lavorato anche alla sceneggiatura, e poi Senso, sono tre film che sono stati fondamentali per la mia preparazione per il cinema, sia dal punto di vista della formazione dell’immagine, sia dal punto di vista dell’esigenza di vivere nella realtà e per la realtà, in un certo senso. Naturalmente, il mio cinema è diverso, i miei film sono diversi da quelli che faceva Visconti, però la disciplina, il rigore, il rispetto verso il lavoro, mi sono derivati molto da Visconti. L’immagine, il modo di formare l’immagine. Io prima di tutto, credo nella funzione del cinema come testimonianza del tempo che viviamo e io, sin dal mio primo film, La sfida, poi con I Magliani e Salvatore Giuliano – che è il mio terzo film – ho creduto in questa funzione del cinema, io mi considero un testimone del mio tempo in Italia. Salvatore Giuliano non è un film neorealista, io mi considero un continuatore del cinema neorealista, ma Salvatore Giuliano ha fatto uno scatto in là. Mentre il cinema neorealista rappresentava, documentava e molte volte il “documento” non andava al di là, perché attraverso la sua fortissima presenza d’immagine, riusciva a dire tutto quello che si voleva dire nella rappresentazione di una verità, il realismo di Salvatore Giuliano cerca di essere anche un realismo critico, cioè un realismo che passa attraverso una serie di domande che io pongo a me stesso e che pongo allo spettatore, perché pretendo che lo spettatore sia uno spettatore attivo, non uno spettatore passivo. Come è morto Giuliano? Chi l’ha ucciso, Giuliano? Come è stato ucciso? Come si è arrivato a poterlo uccidere, invece di catturarlo. Quello che mi interessava era far capire se a un certo punto tutti fossero dei sostenitori di Giuliano oppure no, se a un certo punto questa collusione tra i poteri e la Mafia è nata subito, oppure è nata lungo la strada della vicenda Giuliano, e soprattutto se Giuliano, in un certo senso, è stato anche all’inizio vittima di una strumentalizzazione politica. Io ho lavorato sulla verità che le istituzioni ci hanno fatto conoscere[17].

E, più in là, nella stessa intervista, precisa il ruolo che deve assumere la verità in questo film. Attenersi alla realtà non è soltanto una scelta estetica, per Francesco Rosi, quanto invece una scelta etica. Perché il suo cinema prova a ricostruire la realtà, attraverso il coinvolgimento di persone reali (attori non professionisti), luoghi reali (non semplici location) e situazioni fedelmente riprodotte per mezzo di testimonianze dirette.

Ho creduto che la ricerca della verità, la ricerca di una possibile verità, potesse diventare la drammaturgia stessa del film. La mia scelta è stata quella di fare un film nel quale si rispettasse la realtà dell’ambiente. Io volevo che venisse fuori questa realtà e questa verità a tutti i costi. E che venisse fuori il sole della Sicilia, proprio per questo motivo, io ho scelto di girare nei luoghi veri dove si erano svolti tutti gli avvenimenti della vicenda Giuliano, con la gente che aveva vissuto quegli episodi appena quindici anni prima[18].

Giulio Andreotti

Le scelte più estreme, in termini di linguaggio, sono la sequenza del riconoscimento da parte della madre del corpo del bandito Giuliano e quella della strage di Portella della Ginestra. Ed entrambe, come vedremo in seguito, lasciano delle tracce profonde nell’immaginario collettivo. La scena straziante della madre che piange il figlio morto trascende la sfera familiare e restituisce tutto il dolore di una tragedia universale[19].

La contadina che interpretava la madre, che certamente non è un’attrice professionista, però aveva un grande talento proprio d’attrice. Aveva avuto uno dei suoi figli che era morto in condizioni simili. L’ho fatta tre volte, la scena. Perché questa donna era proprio… piangeva, era estremamente presa dalla vicenda e piangeva moltissimo. Ed era molto emozionata e io temevo molto continuando a spingerla a rifare la scena[20].

C’è proprio l’orgoglio, da parte del regista Rosi, di aver colto un’emozione nel suo farsi, nel suo viversi diretto, senza infingimenti, senza sovrapposizioni di sceneggiatura. Spesso i suoi attori di questo film sono analfabeti e quindi Rosi può fare a meno di un copione. Lavora direttamente sul vissuto degli attori non-attori e permette loro di attingere alla propria esperienza di vita, alla propria storia personale. Il risultato è di un’efficacia strabiliante.

Lo stesso approccio di regìa viene utilizzato per la sequenza più nota del film, quella della strage del primo maggio del 1947, a Portella della Ginestra. Con la collaborazione alla sceneggiatura di Suso Cecchi d’Amico e di Franco Solinas, Francesco Rosi costruisce una sequenza memorabile, che entra a far parte della storia del cinema italiano.

Avevo ricostruito la scena, per poter cercare di avere tutta la verità di cui avevo bisogno, richiamando la gente dei paesi vicini a fare quello che avevano fatto quel giorno lì. Agli spari che io feci venire dalla montagna, senza vedere chi sparava, a quegli spari la gente reagì esattamente come quella giornata, scappavano, si calpestavano l’un l’altro, si buttavano per terra, cadevano, si rialzavano, gridavano, uscivano dalla scena giravano dietro la macchina da presa per poter rientrare in campo e intanto mi tiravano i pantaloni per dirmi «è tale e quale, è tale e quale, è tale e quale». Questa emozione mi riprende oggi. Nel silenzio di questa valle, di queste montagne[21].

«È tale e quale», gli ripetevano i testimoni oculari di un’esperienza maledetta della storia della Sicilia. È tale e quale. È una riproduzione fedele. È la possibilità per i contadini sopravvissuti di rivivere quella tragedia e di esorcizzarla attraverso la mirabile macchina del cinema. Una finzione emotivamente e sentimentalmente vera. Dello stesso tenore, sono i commenti di Tullio Kezich, che si trova a vivere un’esperienza inattesa ed entusiasmante sul set naturale di Portella della Ginestra.

Poi ci sono state delle cose allucinanti, dove addirittura il realismo diventa una specie di spettacolo in cui si rivive la verità. Perché la scena di Portella Ginestra, girata nel luogo dove avvenne la strage, tra le montagne nell’interno della Sicilia, fu praticamente girata in questo modo. Il primo maggio continuava questa tradizione della festa, per cui i tre paesi del circondario arrivarono lì per la festa. Il due maggio e il tre maggio, furono ricostruite queste scene, praticamente si rifece la festa per il beneficio del film. E molti di questi che partecipavano alla scena avevano partecipato al massacro. Noi avevamo diverse macchine da presa. Una macchina riprendeva i totali ed era stata occasionalmente affidata a me e Lina Wertmüller, che in quel momento era di passaggio, noi abbiamo girato i totali della scena. Poi c’era un’altra macchina a livello della strada, dove c’era Pasqualino De Santis, operatore di macchina. E poi Gianni Di Venanzo si aggirava invece con una macchina a mano in mezzo ai dimostranti. La scena venne girata una volta sola, perché ci furono gli spari. Questa folla che scappa da tutte le parti, che travolge tutto e alla fine ci furono delle situazioni incredibili, perché la macchina sulla strada, quella di Pasqualino è stata travolta dalla gente che gli arrivava addosso e Gianni Di Venanzo, me lo ricordo ancora, che arrivò pallido con ancora la sua macchina in mano: «Voi non sapete cosa ho visto. Voi non sapete che cosa ho registrato. Ho registrato delle donne che piangevano, degli uomini che urlavano, della gente che…», perché in qualche modo questa gente ha veramente rivissuto quello che aveva vissuto o che aveva sentito dai loro genitori, quindi è stata una cosa straordinaria, che poi palpita in qualche modo nel film[22].

Il film non può evitare di raccogliere, di registrare, di esprimere le emozioni degli attori, ancora una volta non personaggi ma persone, maschere nude di una esperienza reale, di un fatto vero. Non basta allora il mestiere, non basta il sangue freddo dei tecnici. Il direttore della fotografia, l’operatore di ripresa, la regista amica coinvolta occasionalmente, il critico cinematografico, tutti soccombono alla verità di un sentimento di paura e terrore, secondo i dettami della tragedia nella Poetica di Aristotele. È un’inevitabile per quanto inconsulta catarsi, quella che prende l’anima della troupe e delle comparse. Perché in questo gioco dell’apprendista stregone, Francesco Rosi mette in scena il dolore della memoria individuale e collettiva di una comunità ferita e attonita. Per questo la riuscita della scena è un atto di coraggio e insieme di follia condivisa, è un gesto liberatorio e apotropaico, insieme sacro e carnevalesco.

3. Paolo Benvenuti studia per sei anni i documenti sulla strage di Portella della Ginestra, per realizzare il suo lungometraggio Segreti di Stato (2003). Nella famosa “sequenza delle carte” offre al pubblico l’evidenza di una serie di domande irrisolte. Non propone una soluzione finale dell’enigma, ma si arresta un attimo prima. La sequenza termina con una folata di vento che sconvolge l’ordine delle carte, che sembrano formare uno scudo crociato. Vengono tirati in causa i servizi segreti italiani e statunitensi, il Vaticano, la DC, l’Arma dei Carabinieri e l’esercito, la mafia e l’estremismo di destra che preparava il Golpe Borghese.

Vorrei mostrarle come in Sicilia si giochi la Storia d’Italia. Venga. Osservi quante coincidenze. Portella… Sappiamo che Pisciotta era a Portella sul Cozzo d’Osciai con un gruppo di uomini armati di lanciagranate che gridano «Hurrà!». Sarà un caso, ma in Italia durante la guerra i lanciagranate erano usati dagli uomini della Decima Mas di Iunio Valerio Borghese. Nel ’45 Borghese è condannato a morte dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, ma travestito da ufficiale americano viene salvato da James Jesus Angleton. Angleton è il capo delle operazioni speciali dei servizi segreti americani in Italia ed è Giovan Battista Montini a chiedere ad Angleton, a nome di altri, di salvare Borghese. Montini è addetto ai servizi segreti vaticani sotto il pontificato di Pio XII, il papa che ha lanciato la crociata anti-comunista. Ma sappiamo che a Portella a sparare dalle postazioni basse c’è Salvatore Ferreri, infiltrato nella banda Giuliano dall’ispettore Messana, con l’intervento di Don Vincenzo Rimi, capo mafia di Alcamo e di Salvatore Aldisio, ministro della Repubblica. Il ministro Aldisio, il ministro Mario Scelba e il sottosegretario Bernardo Mattarella, tutti siciliani, sono i discepoli prediletti di don Luigi Sturzo che, esule in America, manteneva i contatti con i suoi pupilli in Sicilia grazie a un giovane ufficiale dei servizi segreti americani, Joe Calderon. È Calderon che accompagna Angleton a Milano a salvare Borghese. Angleton, Calderon e tutti gli uomini dei servizi segreti americani sono agli ordini di William Donovan, il più efficiente collaboratore di Henry Truman, il presidente degli Stati Uniti d’America, che è pronto a intervenire in ogni nazione dove si presenti un pericolo comunista. Sappiamo che sui roccioni del Pelavet si trova Salvatore Giuliano. A detta di Pisciotta, a convincere Giuliano ad andare a Portella, sono stati Bernardo Mattarella, Leone Marchesano, Cusumano Geloso e il principe Giovanni Francesco Alliata di Montereale, amico e pupillo di padre Felix Morlion, il fondatore della Pro Deo, il servizio segreto dei cattolici europei con sede a Lisbona, negli Stati Uniti e in Vaticano. Lui e Montini sono collegati con Donovan fin dal ’42, il suo segretario particolare è Giulio Andreotti che, un mese dalla strage di Portella, diviene sottosegretario di Alcide de Gasperi nel primo governo italiano senza comunisti. De Gasperi era andato in America a ricevere i soldi per ricostruire l’Italia. Truman gli concede quel credito, a patto che i comunisti vengano cacciati dal Governo italiano. Ora però qui ci sono tre pericolosi comprimari. Due mesi dopo la strage di Portella, Ferreri cadde colpito nella caserma di Alcamo, per mano del capitano dei carabinieri Roberto Giallombardo, agli ordini del colonnello Giacinto Paolantonio, braccio destro dell’ispettore Ettore Messana, sempre agli ordini del Ministro degli Interni onorevole Mario Scelba. Ma anche Giuliano sa troppe cose e verrà ucciso, in circostanze poco chiare, dal Capitano dei Carabinieri Antonio Perenze, su ordine del colonnello Ugo Luca, inviato in Sicilia per eliminare Giuliano dal Ministro dell’Interno onorevole Mario Scelba. Luca e Perenze provengono entrambi dal Sim, il servizio segreto militare, che sotto la direzione della CIA si è trasformato in… (una folata di vento spalanca le finestre e spazza via il disegno tracciato dalle carte sul tavolo). L’attentato a Togliatti? Ma che c’entra? Ma questo è Antonio Perenze? L’uomo che ha ucciso Salvatore Giuliano[23].

Le carte volano via e interrompono la ricostruzione storica, piena di se e di ma, piena di incertezze, supposizioni e illazioni, piena di ipotesi non suffragate da documenti e fatti circostanziati. È niente più di una traccia, un processo indiziario, una linea narrativa. La Storia è una storia da raccontare, una fabula da narrare e ascoltare. L’impegno civile, per Paolo Benvenuti, consiste nello stimolare un ruolo attivo da parte dello spettatore, che deve immaginare e congetturare, partecipare alla strategia interpretativa del racconto, negoziarne i significati. Lo spettatore deve faticare per fare la sua parte. Non subisce l’irruzione delle emozioni, non vive la fascinazione immediata e improvvisa delle immagini. Le inquadrature sono lineari e statiche, descrittive, equilibrate e composte per lasciare spazio allo sguardo di cercare la propria prospettiva. Anche il montaggio procede in maniera lineare e metodica, senza sobbalzi e senza ellissi, senza sorprese e con una certa “abbondanza” della sequenza. Il respiro dello spettatore è piano e si prende tutti i suoi tempi, per articolare pensieri e riflessioni, per cercare la propria strada, la propria via nel sentiero ramificato della narrazione.

Io non c’ho mai creduto al cinema d’impegno civile. Il cinema d’impegno civile è una grande mistificazione ideologica […]. Secondo me, il problema è il rapporto col pubblico. Io credo in un cinema nel quale il rapporto col pubblico sia portato al primo livello, in primo piano. Io faccio un cinema per gente che pensa con la propria testa. Cioè, io credo in un cinema dove c’è anche lo spazio per non essere d’accordo con quello che si vede sullo schermo da parte dello spettatore. E cerco di fare un cinema aperto che non dà risposte, ma suppone semplicemente domande. Un cinema civile è semplicemente quel cinema che pone domande e che costringe gli storici e i politici a dare delle risposte. Questo è il vero cinema civile. Il cinema civile che invece dà delle risposte è un cinema ideologico, è un cinema negativo, è un cinema […] a tesi[24].

La libertà sta nella singolarità del processo di percezione. Il cinema dialettico di Paolo Benvenuti presenta con orgoglio le proprie radici profondamente confitte nella ricerca artistica di Jean Marie Straub e Danièle Huillet, nella filosofia di Danilo Dolci, nella dialettica di un pensiero mai sazio e mai riconciliato. Per questo, le difficoltà produttive accompagnano la realizzazione di ogni progetto del regista livornese.

Dopo Segreti di Stato, stanno molto [attenti; sc.]… addirittura hanno cambiato la legge sul cinema per colpa di Segreti di Stato […]. Per fare Segreti di Stato avevo fatto una specie di golpe sul Ministero del Turismo e Spettacolo, presentando il progetto con un altro titolo. Il titolo era l’Avvocato. Il progetto è stato presentato al Ministero col titolo l’Avvocato, e come interpreti principali Pippo Franco e Alvaro Vitali. Questo ha fatto sì che il progetto fosse letto subito in un certo modo, per cui è passato assolutamente tranquillo. Non solo, ma nella sceneggiatura io mi ero ben guardato di mettere la famosa “scena delle carte”, perché la legge stabiliva che in corso d’opera si poteva anche modificare qualcosa. Una certa percentuale, diciamo così, del soggetto poteva essere modificata.

Dopo Segreti di Stato hanno cambiato la legge. E ora, se tu cambi una virgola, devi ripresentare la domanda al Ministero e se non hai l’approvazione del Ministero, non ti danno il finanziamento. Hai capito, per cui questo è il modo di produrre il cinema in Italia[25].

4. Può capitare che «l’Unità», in occasione delle celebrazioni per il primo maggio, utilizzi le fotografie di scena del film Salvatore Giuliano, spacciandole per le foto della vera strage di Portella. Proprio a causa dello stile realistico del film, per il precipuo linguaggio che contraddistingue il film di Francesco Rosi, il piano di verità storica e quello della ricostruzione fizionale vengono a confondersi impercettibilmente.

Ed è così che, nel 2010, con grande enfasi, i telegiornali riferiscono delle ricerche dello studioso Alberto Bellocco, docente di Medicina legale all’Università Cattolica di Roma, che ritiene le fotografie del cadavere di Giuliano non corrispondenti alle altre che ritraggono il bandito ancora in vita[26]. Nasce una vera e propria corrente di pensiero, che trova floride radici in una certa tradizione complottista[27], che esercita notevoli pressioni al fine di verificare una serie di incongruenze e curiosità di ordine storico, ma soprattutto di ordine politico. Prima di tutto, proprio partendo dalle immagini fotografiche del cadavere di Giuliano, lo storico Giuseppe Casarrubea inoltra formale richiesta per accertare l’identità del corpo attribuito al bandito Giuliano[28]. È il procuratore aggiunto Antonino Ingroia, noto per le sue importanti battaglie antimafia, a occuparsi personalmente del caso[29]. È curioso che il primo atto del Pubblico Ministero sia «l’acquisizione dell’unico video della morte diffuso all’epoca della settimana Incom (il video, per gentile concessione dell’Istituto Luce, è visibile su www.ansa.it)»[30]. Viene riesumato il corpo e viene sottoposto alla prova del DNA, confrontandolo a quello dei parenti più prossimi[31]. Si sceglie di fare un confronto con il profilo genetico del nipote Giuseppe Sciortino Giuliano. Il giorno della riesumazione del cadavere la presenza pressante di giornalisti e operatori televisivi rende difficile il lavoro dei medici legali e dei magistrati. Risulta ancora evidente l’alto livello di “notiziabilità” che accompagna la figura di Giuliano. A due mesi di distanza dall’estumulazione del corpo, la notizia della compatibilità con il DNA del nipote non viene ancora accertata e inizia una nuova battaglia mediatica incentrata sull’altezza di Giuliano. Le ossa del femore provano che la sua altezza fosse tra 164 e 166cm, ma alcuni componenti della famiglia sostengono che il bandito fosse alto almeno 180cm. Lo studioso Bruno Ficili di Siracusa, che è in possesso della riproduzione della carta d’identità di Salvatore Giuliano, conferma invece che l’altezza indicata dal documento di riconoscimento attesta un’altezza di 166cm. Finalmente in data 29 gennaio 2011 il blog «Montelepre News» annuncia la sicura corrispondenza dei due profili genetici e l’identificazione del corpo sepolto al cimitero di Montelepre con quello del bandito Giuliano.

Ma dopo un’iniziale attenzione da parte dei media, la storia viene pressoché cancellata e  dimenticata. In realtà si è trattato semplicemente di un errore grossolano. Il medico legale Alberto Bellocco, che aveva posto il problema della mancata corrispondenza delle fotografie di Giuliano vivo con quelle del cadavere, aveva infatti analizzato non le vere immagini fotografiche del cadavere, bensì le foto di scena del film di Francesco Rosi. Ovviamente in quel caso si trattava delle fotografie di un attore e i riscontri non erano possibili. Scoperto l’imbarazzante scambio di fonti, la questione è stata messa a tacere per far sì che lo studioso – e i media che gli avevano dato credito – non fossero ulteriormente coperti di ridicolo. Ancora una volta, i piani della realtà e della rappresentazione tendono a sfumare tra loro e a intersecarsi pericolosamente. La Storia si confonde con il plot di un film, diventa fiction cinematografica e televisiva, rimbalzata tra articoli di giornale, blog e telegiornali, film di culto e opere cinematografiche di nicchia, accuse di inattendibilità e fantasiose ricostruzioni. Le fonti e le testimonianze perdono di credibilità e il carisma di un bandito leggendario ne amplifica la prestanza fisica trasformandolo in un Miles gloriosus. Vengono recuperate visioni e premonizioni[32], libri a stampa e fotografie di scena, testimonianze dirette e psicodrammi collettivi, le impressioni private si sommano alle espressioni artistiche, la realtà si cristallizza nella rappresentazione, la raffigurazione prende il sopravvento sulle prove e i documenti, l’icona soppianta l’indice, le orme si dissolvono, così come le impronte si cancellano e le tracce si disperdono. Alla fine resta il cinema, con la sua forza illusoria e probante. «La forza di un film è tale che quando il film esiste e sta lì diventa una cosa indistruttibile»[33].

NOTE


[1]      Voce n. 197 del Catalogo dei documenti dell’Ufficio di revisione cinematografica relativi alle pellicole cinematografiche italiane e straniere condizionate o respinte dalle commissioni di revisione. Per le ricerche è stata utilizzata la bancadati Revisione cinematografica, 1944 – 2000, realizzata dalla Cineteca di Bologna, con la collaborazione dell’A.N.I.C.A., nell’ambito del progetto Italia Taglia. Progetto di ricerca sulla censura cinematografica in Italia. In questa sezione è consultabile l’elenco dei fascicoli presenti nel fondo Giulio Andreotti, Serie Cinema, conservato presso l’Istituto Luigi Sturzo.

[2]      Ibidem.

[3]      Di meno di un anno precedente è infatti un’escalation continua di attacchi alle forze dell’ordine, come racconta Renzo Trionfera sul suo articolo uscito su «L’Europeo» del 4 dicembre 1960: «L’8 di aprile del ’49, all’alba Giuliano fece attaccare una pattuglia di Carabinieri nella zona di Torretta (alla periferia di Palermo). Morì un milite fulminato da una revolverata. Altri otto restarono più o meno gravemente feriti. Il 2 luglio successivo fu assaltata una camionetta della polizia a Portella della Paglia. Il bilancio di questa seconda azione fu ancora più tragico: rimasero sul terreno cinque agenti». Ma di lì a poco ci sarebbe stato il più terribile attentato compiuto dalla banda di Giuliano contro i Carabinieri. Le modalità di azione dei banditi sono di stampo paramilitare, con una vera e propria forma di guerriglia ingaggiata contro i militari dell’arma. Dapprima la banda di Giuliano attacca la caserma dei Carabinieri di Bellolampo, a metà strada tra Palermo e Montelepre, con una raffica di mitra. Parte l’allarme che attira rinforzi dalle altre caserme nei dintorni. E proprio un autoblindo con i rinforzi viene fatto saltare con una bomba sepolta lungo la strada. La strage di Bellolampo, del 19 agosto 1949, lascia a terra sette Carabinieri morti e una ventina di feriti, orribilmente mutilati.

[4]      Catalogo Ufficio di revisione cinematografica, cit.

[5]      Le dichiarazioni della figlia del regista catanese, Gabriella Saitta, e del suo strettissimo collaboratore Riccardo Manaò, l’aiuto regista che lo affiancò in diversi progetti cinematografici, sono state raccolte nel documentario Con la Sicilia negli occhi. Il cinema documentario di Ugo Saitta, diretto da me nel 2011 e dedicato alla quarantennale produzione cinematografica di Saitta.

[6]      Cfr. Renzo Trionfera, L’ho ucciso io, urlò Pisciotta. La verità sulla drammatica notte in casa Di Maria, in «L’Europeo», 11 dicembre 1960.

[7]      Così come fedelmente riportato sul telegramma inviato dal Colonnello Ugo Luca al Comando dell’Arma a Roma e al Ministro dell’Interno on. Mario Scelba: «Da Castelvetrano colonnello Luca segnala che ore 3,30 oggi dopo inseguimento centro abitato et conflitto a fuoco sostenuto da squadriglie del Cfrb [Comando Forze Repressione Banditismo; sc.] rimaneva ucciso il bandito Giuliano. Nessuna perdita parte nostra. Cadavere piantonato disposizione autorità giudiziaria». Per informazioni più dettagliate sul succedersi delle differenti versioni, tutte da parte di diversi ufficiali dei Carabinieri, cfr. Lino Buscemi, L’avvocato Gregorio Di Maria: “Così ho visto assassinare Giuliano”, in «la Repubblica», 6 luglio 2008.

[8]      Attualmente una copia della sceneggiatura del film su Portella, scritta da Giuseppe De Santis, è in possesso del regista Paolo Benvenuti.

[9]      Ricordiamo che nel 1954 Giuseppe De Santis aveva già diretto dei capolavori della storia del cinema italiano, che lo avevano reso celeberrimo al pubblico delle sale e al mondo della critica. De Santis, regista impegnato della corrente del realismo cinematografico, è autore di opere di riconosciuto prestigio come Caccia tragica (1946), Riso amaro (1949), Non c’è pace tra gli ulivi (1950), solo per ricordare alcuni titoli.

[10]     Il successo di Rosi esplose proprio con il film Salvatore Giuliano. La sua produzione precedente era allora ed è ancora oggi poco nota: La sfida (1958) e I magliari (1959). Di assoluto rilievo è invece la produzione successiva al film in questione, che vede almeno tre grandi titoli per la storia del cinema politico: Le mani sulla città (1963), Il caso Mattei (1972) e Cadaveri eccellenti (1976). Da segnalare, per valore cinematografico, anche se si allontanano dalla formula del film-inchiesta che aveva caratterizzato la stagione più feconda del regista napoletano, anche Uomini contro (1970), Cristo si è fermato a Eboli (1979) e Tre fratelli (1981), che ricevette anche una nomination agli Oscar.

[11]     Trascrizione dell’intervista a Paolo Benvenuti disponibile su You-Tube, all’indirizzo: <http://www.youtube.com/watch?v=BM_Ftk1r9jM> (consultato l’8 aprile 2012). Il regista livornese, da me contattato telefonicamente nel giugno del 2011, mi suggerisce di cercare questa intervista sul web. A questo contatto telefonico seguono almeno altre quattro discussioni via filo, che vertono tutte su questo tema e che permettono di approfondire diversi aspetti della questione.

[12]     Le conversazioni telefoniche, che risalgono al periodo di maggio-agosto 2011, sono state prolungate e reiterate (circa un paio d’ore di conversazione in totale), perché rappresentavano una puntuale e articolata risposta del regista a un fax da me inviato ad aprile 2011, al fine di coinvolgere Francesco Rosi nel già citato documentario Con la Sicilia negli occhi, che affrontava il tema delle uniche riprese documentarie, effettuate da Ugo Saitta, del cadavere di Giuliano. Lo stesso regista catanese aveva confidato alla figlia Gabriella Saitta di essere stato contattato da Rosi, il quale, ritenendo Saitta un attendibile testimone oculare, gli avrebbe chiesto consigli per la realizzazione della struggente scena del film Salvatore Giuliano in cui avviene il ritrovamento del corpo del bandito. Francesco Rosi, da me interrogato sulla questione, ricordava di aver conosciuto Saitta in qualità di operatore della Settimana Incom, ma negava fermamente di aver parlato con lui in maniera specifica del cadavere di Giuliano e soprattutto di avergli mai chiesto consigli di messa in scena per il suo film.

[13]     Tullio Kezich (a cura di), Salvatore Giuliano, Edizioni F.m., Roma 1961. Il volume è stato commissionato dalla Cineteca Nazionale di Roma.

[14]     La scena a cui fa riferimento Paolo Benvenuti comincia intorno al minuto 32′ 30” del film Salvatore Giuliano.

[15]     Trascrizione dell’intervista a Paolo Benvenuti, cit.

[16]     Trascrizione di un’intervista a Martin Scorsese, tratta dal documentario Il cineasta e il labirinto. Incontro con Francesco Rosi, con regìa di Roberto Andò, poi ripubblicato negli extra del dvd doppio The Criterion Collection, insieme alla versione restaurata del film Salvatore Giuliano: «I suoi film non hanno il lieto fine della commedia. Io ho sempre ammirato la grande chiarezza dello stile di Rosi, l’accurata struttura dei film e l’insieme di documentario e fiction. Con il suo linguaggio ha aggiornato la tradizione del realismo italiano».

[17]     Trascrizione dell’intervista a Francesco Rosi, tratta dal documentario Witness of his times, anch’esso pubblicato negli extra del dvd doppio The Criterion Collection; cfr. anche la trascrizione dell’intervista a Francesco Rosi, tratta dal documentario Il cineasta e il labirinto…, cit.: «Rossellini, De Sica, Visconti, hanno insegnato a noi giovani, ci hanno passato questa esigenza di partecipare, con il cinema, facendo diventare il cinema uno strumento anche politico, anche sociale, soprattutto direi sociale, perché attraverso quei film, si vedeva l’Italia, si riconoscevano quelli che erano i dolori, le speranze, le vittorie, le sconfitte di un popolo».

[18]     Ibidem.

[19]     Trascrizione dell’intervista a Tonino Guerra, tratta dal documentario Il cineasta e il labirinto…, cit.: «Uno dei momenti più belli miei, che mi è arrivato dal cinema è il lamento di questa donna, la madre di Giuliano, il lamento attorno a questo cadavere, questo grido immenso. E tutti pensano che sia un grido bello per la sua forza greca. E invece io ho sentito là dentro, in quella voce sbraitata, ho sentito dentro che si era sciolta anche la voce di una che raccontava le ninnananne».

[20]     Trascrizione dell’intervista a Francesco Rosi, tratta dal documentario Witness of his times, cit.

[21]     Trascrizione dell’intervista a Tonino Guerra, tratta dal documentario Il cineasta e il labirinto…, cit.

[22]     Trascrizione dell’intervista a Francesco Rosi, tratta dal documentario Witness of his times, cit.

[23]     Trascrizione della “sequenza delle carte” dal film Segreti di Stato di Paolo Benvenuti (2003).

[24]     Trascrizione dell’intervista a Paolo Benvenuti, realizzata in occasione della sua partecipazione alla rassegna di cinema non-fiction La paura mangia l’anima (febbraio 2011).

[25]     Ibidem.

[26]     Attilio Bolzoni, Le stranezze sono troppe la scienza ci dirà la verità, in «La Repubblica» del 15 ottobre 2010: «Sorpreso non lo è, anche perché questa storia lui la conosce da tanto. Dice: “Già undici anni fa avevo scoperto che quelli erano due cadaveri e non uno come qualcuno sosteneva”. Undici anni fa il professore Alberto Bellocco, docente di Medicina legale all’Università Cattolica di Roma, 897 autopsie segnate nel suo curriculum, aveva visionato cinque foto attribuite al bandito Giuliano e si era subito accorto che qualcosa non quadrava. Ricorda oggi: “C’ era una foto stampata al contrario, l’ho capito dai bottoni della giacca di un carabiniere e da un signore che, chino, scriveva con la mano sinistra. Poi, quando ho guardato le ferite sull’avambraccio sinistro – che poi era il destro – dell’uomo indicato come Salvatore Giuliano e le ho confrontate con un’altra foto, mi sono reso conto che sull’avambraccio destro di quell’altra foto non c’erano segni di ferite. Ho capito che avrei dovuto esaminare con più attenzione tutto il materiale che avevo ricevuto. E così ho fatto”».

[27]     Cfr. l’articolo di Renzo Trionfera, L’ho ucciso io… cit., che pronuncia le prime ipotesi fantasiose sull’esistenza di un sosia di Salvatore Giuliano, che sarebbe stato utilizzato dallo stesso bandito, per darsi definitivamente alla macchia: «Mentre i carabinieri preparavano una trappola in cui farlo cadere, lui [Salvatore Giuliano; sc.] meditava adeguate contropartite nei confronti del Comando forze repressione banditismo (Cfrb). Come riferirono alcuni confidenti, egli stava macchinando un’azione complicatissima. Aveva incaricato i suoi collaboratori di cercare un giovanotto che avesse pressappoco la sua età e la sua corporatura. Una controfigura, insomma, alla quale Turiddu avrebbe riservato una sorte crudele». Si veda inoltre la curiosa teoria pubblicata dalla sorella di Giuliano e da suo figlio, che testimonia l’inattendibilità del riconoscimento del corpo del bandito Giuliano, da parte della madre e della sorella maggiore; Mariannina Giuliano e Giuseppe Sciortino Giuliano, Mio fratello Salvatore Giuliano, La Rivalsa, Montelepre, 1987, p. 345: «La sala mortuaria era composta da un corridoio e da tre stanze poste in longitudine ad esso. Il corpo era stato sistemato nell’ultima stanza, entrando veniva quasi di fronte. Nostra madre avanzò lentamente, guardando fisso davanti a sé e arrivò fino alla seconda stanza. Prima ancora di vederne il viso, le sembrò di riconoscerne la corporatura. Mandò un urlo disperato e si accasciò al suolo svenuta. Il medico che la seguiva la soccorse prontamente. Mia sorella Giuseppina era dietro di loro con gli occhi velati di pianto e vide cadere nostra madre. Da questo solo fatto, capì che quello doveva essere proprio il corpo di nostro fratello. Si sentì mancare anche lei. Suo marito riuscì ad afferrarla, prima che cadesse, cercò di confortarla come meglio poteva, mentre il dottor Maggiore continuava ad occuparsi di nostra madre. Ci vollero un bel po’ di minuti prima che si riprendessero. Quando furono in grado di poter proseguire, i carabinieri li obbligarono ad uscire. Per loro, quegli svenimenti erano stati la prova tangibile che quel corpo apparteneva al nostro congiunto. Per loro, il riconoscimento era stato effettuato».

[28]     Lettera di Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino al questore Alessandro Marangoni del 5 maggio 2010: «I sottoscritti […] chiedono alla S.V. di volere intraprendere un’indagine conoscitiva per accertare la vera identità della persona uccisa nel cortile dell’avvocato Di Maria […]. Gli scriventi ritengono che vi siano fondati motivi per ritenere che il cadavere ritratto nel suddetto cortile e nell’obitorio del cimitero di Castelvetrano, non sia la medesima persona ritratta in decine di fotografie e in un filmato del dicembre 1949 come il bandito Salvatore Giuliano».

[29]     Attilio Bolzoni, Giuliano “aprite quella tomba”, in «la Repubblica» del 15 ottobre 2010: «“Abbiamo preso questa decisione per non lasciare dubbi su quel cadavere, abbiamo ricevuto una denuncia circostanziata, per il momento s’indaga intorno all’ipotesi di morto ignoto ucciso con premeditazione”, spiega il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che il 5 maggio scorso ha trovato sulla sua scrivania un rapporto della Questura di Palermo con un esposto firmato dallo storico Giuseppe Casarrubea […]. Immagini a confronto, quelle con Giuliano vivo e quelle altre con Giuliano morto, che hanno cominciato a far venire i primi sospetti agli storici e non solo a loro. Le foto più significative – cinque, il bandito fotografato all’obitorio e il bandito fotografato nel cortile di Castelvetrano – sono finite per altre vie nei laboratori del professore Alberto Bellocco, docente di Medicina legale all’Università Cattolica di Roma, che dopo averle esaminate ha dato il suo parere: “Ho seri dubbi che le foto possano essere attribuite allo stesso cadavere” […]. Così è nata l’inchiesta giudiziaria (coincidenza, il fascicolo è stato ufficialmente aperto il 5 luglio del 2010, proprio nel sessantesimo anniversario) […]. Il procuratore aggiunto Ingroia – insieme ai sostituti Francesco Del Bene, Marcello Viola, Lia Sava e Paolo Guido, che sono tutti i pm che hanno competenza territoriale per le vicende di mafia fra il Trapanese, dove c’è Castelvetrano, e la parte occidentale della provincia di Palermo, dove c’è Montelepre – ha incaricato il capo della polizia scientifica Piero Angeloni di “comparare” foto ed emettere un verdetto».

[30]     Antonella Folgheretti, C’è una sola certezza: la tomba non è vuota. Il caso Salvatore Giuliano: dopo la riesumazione, dubbi sull’identità, in «Blog Sicilia», 29 ottobre 2010. Il video a cui fa diretto riferimento il PM Antonino Ingroia è ancora una volta quello girato da Ugo Saitta.

[31]     Cfr. Redazione, Due cadaveri per un bandito: la «strana» morte di Giuliano, in «Il Giornale.it», 9 agosto 2010; cfr. anche Pietro Scaglione, La vera storia del bandito Giuliano, in «Famiglia Cristiana», 15 agosto 2010; inoltre, cfr. Giacomo Maniaci, Caso Giuliano, lungo silenzio sugli esami del dna, in «Montelepre web», 31 dicembre 2010.

[32]     Sicuramente, tra le ricostruzioni paradossali spicca quella che vorrebbe Padre Pio tra i sostenitori dell’esistenza di un sosia del bandito Giuliano. Numerosi articoli sul web attesterebbero delle dirette affermazioni del frate di Pietralcina. Cfr. Veronica Femminino, Padre Pio l’aveva detto: “Salvatore Giuliano è vivo”, in «BlogSicilia», 29 ottobre 2010: «A rivelarlo, è l’avvocato Ettore Boschi, che […] racconta di un suo colloquio con Padre Pio avvenuto a metà degli anni Sessanta, nel corso del quale il frate sembrò non avere dubbi sulle sorti di Giuliano. All’obiezione dell’avvocato che fece notare al frate che il cadavere di Giuliano era stato sottoposto ad autopsia e già riconosciuto dai familiari come corrispondente all’identità del bandito di Montelepre, Padre Pio rispose, non senza una certa durezza: “Zitto, tu non capisci niente!”. Cosa sapeva Padre Pio? La sua certezza era frutto delle sue capacità di “onniveggenza” o di un segreto appreso nell’oscurità del confessionale?».

[33]     Trascrizione dell’intervista a Francesco Rosi, tratta dal documentario Witness of his times, cit.

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