Il salto del cavallo

Condividi questo articolo?

Edito da Mare Nostrum Edizioni srl, è in distribuzione il libro di Francesco Gianino “Il Salto del cavallo”, un interessante “quadro” di una Catania conosciuta, forse, solo dai catanesi. Uno spaccato di tradizioni e realtà tracciato in maniera inusuale che focalizza in maniera esemplare l’animus della gente del luogo che il tempo non può cancellare.

Presentiamo l’impeccabile nota introduttiva del volume a firma di Cateno Tempio

FRANCESCO GIANINO

IL SALTO DEL CAVALLO

Introduzione

di Cateno Tempio

In via Plebiscito, qualche mese fa, davanti a un venditore di bombole da cucina, un ragazzo sui vent’anni sedeva su degli scalini a gustarsi il suo bel panino imbottito con una fettina di carne di cavallo. Dalla bottega fatiscente se ne uscì un bambino sugli otto, nove anni, a torso nudo, ben pasciuto, anche lui con un panino avvolto nella stagnola, trasbordante carne da ogni parte. Si piazzò davanti al giovane e con un sorriso estasiato prese a baciarsi panino e fettina. Era vero amore.

In questa immagine mi pare condensato tutto lo spirito – ma verrebbe da dire tutta la carne – di Catania. Via Plebiscito segna una sorta di labile e permeabile confine tra la cittadina della movida e i quartieri. La strada, tra le più popolari, si snoda lungo un tratto semicircolare che le fa assumere la forma proprio di un ferro di cavallo. Qui si compenetrano e mischiano le anime della città. Se non si è stati in via Plebiscito, praticamente non si è stati a Catania. Qui, ma non solo, le fornacelle – i fucuna – fumano in strada ininterrottamente dalle undici del mattino all’una, alle due di notte, a volte anche oltre. Per lo più si tratta di carne di cavallo: fettine, polpette, tramezzini. I catanesi la mangiano al sangue, quasi cruda. (E che strano per me parlarne in questi termini, senza condanna, io che sono vegetariano ormai da più di un decennio).

Se l’elefante è l’anima simbolo della città, il cavallo ne è totem e tabù. I poliziotti in sella erano un’immagine molto presente nell’immaginario dei cittadini fino a pochissimi anni fa; esiste in via Vittorio Emanuele II, un Istituto di Incremento Ippico (e mi ha sempre fatto sorridere guardarlo, immaginando che i cavalli non bastassero mai per il robusto appetito dei catanesi!); circola a Catania una statua di Stallone Ferito dotato – per dirla alla D’Annunzio – di una grossa coglia: posto davanti al Castello Ursino, venne trasferito nel 1999 nell’ex piazza Vittorio Emanuele II, dove venne mutandato due volte per non creare scandalo al passaggio di una processione per la Madonna del Carmine, poi spostato nel 2014 in piazza Galatea, quindi prestato per una mostra a Messina, per poi finire nel 2019 a Linguaglossa, sulle pendici dell’Etna; sono facilmente reperibili su internet dei filmati di corse clandestine di cavalli organizzate in pieno giorno lungo la circonvallazione della città. Ricordo ancora lo stupore di un mio collega insegnante livornese: lo avevo portato a mangiare in una delle più note putie di via della Concordia e durante l’attesa sentì discutere due avventori in siciliano, afferrandone qualche parola qua e là. «Stanno parlando di ciò che penso?», mi chiese. Sì, stavano parlando di ciò che pensava: corse e scommesse clandestine.

A Catania, quando c’è di mezzo un cavallo, ci potrebbe scappare anche il morto, e di solito il morto sarebbe il cavallo. Nella vicenda che ci narra Francesco Gianino, il morto è lì lì per scapparci. Ma in una storia con la esse minuscola e maiuscola, in cui tutti vogliono beffare tutti, alla fine pare di sentire riecheggiare un ridente nitrito liberatorio.

Santo Bumma è un ragazzo di quartiere orfano di padre, morto al servizio della mafia, e per questo riceve pensione e protezione; Concetta è una giovane donna che per emanciparsi è scappata oltreoceano; Ciccio Canaglia è un piccolo mafioso che conta poco ma che ha fame di soldi e di equini; e infine Al Capitta, cowboy tardo a capire come lenti sono i tramonti delle campagne americane passati a guardare le vacche. Concetta, che in America si fa chiamare Concita, si innamora proprio nel Nuovo Mondo. Probabilmente sarà l’unico suo vero amore: Geronimo, che porta il nome di un capo pellerossa. Potremmo notare che Concetta riporta un cavallo dall’America in Europa, quasi in un atto di inconsapevole giustizia storica. I nativi americani, com’è noto, non conoscevano il cavallo, eppure nel nostro immaginario gli “indiani” sono sempre in sella. Si tratta di quella rivoluzione equestre di cui hanno parlato gli storici, avvenuta dopo l’introduzione del cavallo nel Nord America. Chissà se con questo ritorno dell’animale nel Vecchio Mondo, in una città descritta con un’atmosfera da fiaba distorta, non faccia scattare nei protagonisti del racconto una sorta di involuzione equestre.

Un’ultima notazione: lo stile del racconto riproduce molto spesso la ferinità dialettale del catanese. Il dialetto, tanto più se relegato alla periferia dell’Impero, acquisisce uno statuto ferale e ferino, in special modo quando si ha che fare con questioni di carne e sangue. Il dialetto può assumere un connotato umoristico, anzi ridicolo, se utilizzato in maniera macchiettistica. Ma laddove l’intenzione non sia caricaturale, potrebbe mettere in scena una tragicommedia a tinte fosche, sanguigne. Potremmo scomodare nomi celebri, D’Arrigo, con le sue fere, su tutti. Proprio questo tipo di ferinità tragicomica è l’effetto sortito dalle intromissioni dialettali nel tessuto linguistico dello scritto.

Il salto del cavallo spesso è un salto mortale.

Negli scacchi a volte bisogna sacrificare un cavallo per vincere la partita.

Molto più spesso, per fortuna, non ce n’è bisogno.

*Nella foto, l’autore de “Il salto del cavallo”, Francesco Gianino

Potrebbe interessarti

Leave a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.