Crisi Covid: nel 2020 chiuse 273.000 imprese

Condividi questo articolo?

di Mariangela Pani

(AdnKronos) – Tra le criticità che l’agenda del neonato governo Draghi dovrà affrontare c’è sicuramente quella dell’emorragia delle imprese, piegate da lockdown generali e chiusure locali, dalla desertificazione delle città e degli uffici, dalla crisi globale sui mercati internazionali. Gli ultimi dati Istat, relativi ad un’indagine campionaria molto ampia (riferita ad un universo di 1.019.786 imprese di 3 e più addetti che operano nel settore dell’industria e dei servizi) effettuata tra ottobre e novembre, parlano di 73.000 imprese chiuse, vale circa il 7,2% del totale. Se si guarda poi al registro delle imprese monitorato da Unioncamere e Infocamere, sono 273.000 le cessazioni nel 2020, anche se il saldo finale tra chiuse e aperte (poco più di 292.000) è ancora positivo (+0,32%), segno di una certa resilienza del nostro tessuto imprenditoriale.

Ma c’è molta preoccupazione per i dati relativi al primo trimestre e per due motivi: il primo è che, storicamente, è in questo periodo dell’anno, all’inizio, che si concentrano le chiusure, e il secondo è l’effetto derivato dal venire meno (salvo interventi governativi) tra 45 giorni del divieto per le aziende di procedere a licenziamenti per motivi economici, sia individuali, sia collettivi. Non solo: il 31 marzo scadono anche i trattamenti di integrazione salariale ordinaria con causale Covid-19 (prorogati a gennaio 2021 di 3 mesi per un totale di 12 settimane aggiuntive), mentre per la cassa integrazione in deroga causa Covid c’è tempo fino al 30 giugno.

Ma le stime che arrivano dalle associazioni di imprenditori vedono ancora più nero, anche e soprattutto per i primi tre mesi del 2021: cupe le previsioni di Confcommercio che parlano di chiusura definitiva di oltre 390mila imprese del commercio non alimentare e dei servizi di mercato, fenomeno non compensato dalle 85mila nuove aperture, per cui la riduzione del tessuto produttivo nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305mila imprese (-11,3%). Di queste, 240mila, esclusivamente a causa della pandemia. Anche per Confesercenti, a causa del Covid, sono a rischio chiusura 150mila imprese del terziario (80mila nel commercio e 70mila nel turismo) e per Confartigianato un’impresa su 5 (il 21%) è soggetta a rischi operativi e avrà difficoltà nel proseguire l’attività nei prossimi mesi.

Il rischio che l’escalation dei contagi da Covid-19, pur in assenza di un lockdown nazionale, possa essere devastante per imprese e lavoro viene sottolineato anche dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro nell’indagine ‘Crisi, emergenza sanitaria e lavoro nelle Pmi’: 2 imprese su 10 di quelle ad oggi aperte potrebbero chiudere. Sempre secondo l’analisi (svolta presso un campione di 5.000 consulenti del lavoro tra il 22 settembre e il 19 ottobre, in due diverse tranche), il 31,8% dei consulenti del lavoro individua tra il 10 e 20% la quota di imprese che potrebbero interrompere la propria attività a seguito di nuovo picco pandemico e inasprimento delle misure restrittive; il 48,4% formula previsioni ancora peggiori, individuando tra il 20 e 30% (il 26,9%) e superiore al 30% (21,5%).

Secondo l’Istat, a cadere di più sotto i colpi della crisi da pandemia sono state le piccole e piccolissime imprese e quelle che operano al Sud: come dire che la crisi ha trovato terreno fertile su un tessuto già fragile. L’85% delle unità produttive ‘chiuse’ sono infatti microimprese e si concentrano nel settore dei servizi non commerciali (58 mila unità, pari al 12,5% del totale), in cui è elevata anche la quota di aziende parzialmente aperte (35,2%). Palestre, attività sportive, discoteche presentano la più alta incidenza di chiusura, seguite dai servizi alberghieri e ricettivi e dalle case da gioco. Una quota significativa di imprese attualmente non operative si riscontra anche nel settore della ristorazione (circa 30 mila imprese di cui 5 mila non prevedono di riprendere) e in quello del commercio al dettaglio (7 mila imprese).

Il 28,3% degli esercizi al dettaglio chiusi non prevede di riaprire rispetto all’11,3% delle strutture ricettive, al 14,6% delle attività sportive e di intrattenimento e al 17,3% delle imprese di servizi di ristorazione non operative. Tra le imprese attualmente non operative, quelle presenti nel Mezzogiorno sono a maggior rischio di chiusura definitiva: il 31,9% delle imprese chiuse (pari a 6 mila unità) prevede di non riaprire, rispetto al 27,6% del Centro, al 23% del Nord-Ovest e al 13,8% del Nord-Est (24% in Italia). Tra le imprese attualmente non operative, quelle presenti nel Mezzogiorno sono a maggior rischio di chiusura definitiva: il 31,9% delle imprese chiuse (pari a 6 mila unità) prevede di non riaprire, rispetto al 27,6% del Centro, al 23% del Nord-Ovest e al 13,8% del Nord-Est (24% in Italia).

Unioncamere, altro importante osservatorio della vita delle imprese, segnala un altro fattore di grave difficoltà delle imprese, conseguenza dell’emergenza sanitaria: la scarsità della liquidità che tocca due imprese su cinque del commercio. Fattore che ha indotto molte imprese a richiedere nuove linee di credito pur senza requisiti di affidabilità.

Tra le imprese più colpite, spiega Uniocamere, quelle femminili: a fine 2020 si è fermata una crescita che andava avanti da sei anni. L’Osservatorio dell’imprenditorialità femminile di Unioncamere e InfoCamere registra un calo dello 0,29%, pari a quasi 4mila attività in meno rispetto al 2019. Una perdita tutta concentrata al Centro Nord (il Mezzogiorno segna infatti un +0,26%) e sulle imprenditrici giovani. Sebbene il tessuto produttivo femminile resti comunque mediamente ‘più giovane’ di quello maschile, le aziende guidate da donne di meno di 35 anni di età hanno ridotto lievemente il proprio peso sulla componente imprenditoriale femminile. Le attuali 154mila attività di giovani donne sono, infatti, l’11,52% del totale, mentre nel 2019 erano il 12,02%.

I primi mesi del 2021 restituiranno, dunque, osserva Unioncamere, “dati di peggioramento delle cessazioni che probabilmente si sommeranno al picco stagionale del fenomeno (le imprese tendono a concentrare le cancellazioni nei primi mesi dell’anno, e in particolare a gennaio e febbraio), con un ulteriore incremento di chiusure legato alla valutazione degli imprenditori di interrompere l’attività (che si intravede nei dati già nel mese di ottobre) a conclusione del bilancio dell’annus horribilis 2020”. (di Mariangela Pani – AdnKronos)

Potrebbe interessarti

Leave a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.