Possono guarire le ferite dell’anima? Ne parliamo con Nadia Terranova

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di Salvo Zappulla

Si può convivere con i propri fantasmi? Si può vivere portandosi dentro conflitti interiori, traumi esistenziali che ribollono dentro come magma incandescente impossibilitata a esplodere? Il dolore dell’anima è un mostro tentacolare che avviluppa le viscere  giorno dopo giorno, implacabile, silenzioso, spietato. I fantasmi vanno affrontati con coraggio, scovati nelle loro tane, sradicati ed estirpati dal proprio essere. Guai a tenerseli dentro. Ed è quello che fa Ida, la protagonista di questo straordinario romanzo (“Addio fantasmi” Einaudi Stile Libero), quando decide di tornare a Messina, il luogo dell’abbandono, per andare a trovare la madre. Ida ha un conto in sospeso con il proprio passato, un nodo che stringe sempre più forte. Un bel giorno il padre è uscito di casa e non è tornato più, sparito per sempre. Un’assenza che si rivelerà un vuoto impossibile da riempire. Nadia Terranova di questa perdita ne fa il fulcro del romanzo, un viaggio esistenziale negli abissi del dolore, nei labirinti della psiche umana, nei meandri oscuri che ogni essere umano si porta addosso. I personaggi di questa storia interagiscono in maniera esemplare eppure sembrano così distanti l’uno dall’altro, isole, ognuno racchiuso dentro la corazza della propria solitudine. Incomprensioni, distacchi che non riescono a sanarsi, così è tra Ida e la madre. Anche il marito, Pietro, sembra una figura aleatoria, un essere quasi impalpabile, che interviene, la sostiene nei momenti di necessità ma rimane sempre ai margini, come avesse paura di disturbare. Non hanno figli, non fanno più l’amore, si limitano a risolvere con quotidiana monotonia le piccole incombenze domestiche. Persino il rapporto di Ida con l’amica del cuore si rivelerà una delusione.  Una storia intima, drammaticamente esistenziale, dove i silenzi esplodono fragorosi più delle parole. Tanti naufraghi aggrappati a una zattera che sembra andare stancamente verso la deriva. Eppure ci deve essere una soluzione che indichi uno spiraglio di luce. Ed ecco il colpo di scena finale dell’autrice: riuscire a ripulire la mente dagli spettri che si erano incagliati trasformandola in una prigione. Una sorta di catarsi purificatrice che libera corpo e anima da ogni contaminazione. I traumi si possono rimuovere dal subconscio, basta lasciare che recitino la loro parte e chiudere il sipario, in questo enorme palcoscenico che è la vita. Un finale aperto alla speranza. Sorgeranno nuove albe e nuove strade da percorrere.

Nadia Terranova, prima di farle queste domande ho spulciato un po’ nel web per leggere altre interviste che la riguardano, per cercare di chiederle cose nuove, ma è difficile, considerando il successo che riportano i suoi libri e l’attenzione che le viene rivolta. Mi ha colpito molto il fatto che lei risponda a tutti i suoi lettori, lo ha dichiarato con naturalezza, come fosse una cosa scontata. Questo particolare l’ho trovato bellissimo, l’umiltà è la dote dei grandi. Lei oggi è una scrittrice molto nota. Come è cambiata la sua vita? Che differenza c’è tra “prima” e  “dopo?”

Leggere i messaggi dei lettori è bello e anche utile, si scopre qualcosa di come il tuo lavoro viene recepito, per noi scrittori è un’opportunità per capire chi siamo per gli altri, cosa stiamo spesso involontariamente costruendo. Quando si toccano corde molto intime può accadere di essere letteralmente travolti dall’interiorità di un lettore, che ha trovato affinità con il mondo narrato e vuole quindi mostrarti il suo, magari aprendo porte e finestre che fino a quel momento aveva tenuto serrate. Non è un confronto sul piano psicologico, non soltanto, ma passa attraverso la letteratura e questo per me è l’aspetto più interessante: l’arte, la cui caratteristica è di essere così felicemente inutile, si rivela in realtà utilissima. In questi casi, raccolgo la confidenza ricordandomi sempre di maneggiare con cura un materiale che mi appartiene fino a un certo punto, però è bello pensare che il tuo libro si è piazzato come un piccolo grimaldello nelle vite degli altri, scardinandole. Inoltre, su un piano più superficiale, troverei maleducato non trovare qualche minuto per rispondere a chi mi ha dedicato il suo tempo. Certo, posso farlo solo a tratti e a volte in maniera laconica, altrimenti non scriverei e non vivrei più (ecco, quello che è cambiato in questi mesi è la frequenza dei messaggi), ma continuo a farlo sempre.

“Addio fantasmi” è una storia fatta di grandi silenzi, di incomunicabilità, di ferite tenute dentro; quasi una sorta di contrappasso in questo tempo in cui, grazie alla tecnologia, tutti sgomitano per cercare spazio, visibilità, vogliono dire la loro anche quando non hanno nulla da dire. Che insegnamento possiamo trarre dalla protagonista del suo romanzo?

Ida è un personaggio spigoloso, difficile. Qualcuno mi ha detto: è difficile empatizzare con lei. Altri invece lo hanno fatto senza problemi. Credo possa aiutare chi sente di essersi chiuso dentro un dolore, asserragliato, a sentire di non essere solo, di non essere sbagliato.

Che differenza c’è a scrivere per i bambini   e rivolgersi invece ai  lettori adulti?

Nella sostanza per me non cambia niente. Tratto gli stessi temi – morte, solitudine, angoscia, scomparsa, dolore – e cerco in entrambi i casi di tenere conto del fatto che può esserci felicità inattesa ovunque, anche nella situazione più terribile. Cambia la velocità di scrittura, conseguente a quella di lettura: ai bambini piace divorare storie, e quindi di solito sono più brevi e agili.

La scrittura come terapia ai mali dell’anima, purificazione dal vivere quotidiano. È possibile?

Più che di purezza, parlerei di un saper dialogare con i propri abissi. Non siamo puri e non lo saremo mai, però possiamo fare arte e tesoro delle nostre scorie.

Cosa le procura gioia?

Rubare alle giornate invisibili momenti di clandestina felicità, perlopiù legati a cose piccole e mie.

Cosa le dà sofferenza?

Vedere gente che trae gioia da un danno altrui, fino a procurarlo. Mi dà pena.

Lei da anni vive a Roma ma è originaria di Messina. Quali sensazioni prova quando torna nell’Isola?

Sono isolana fino alle ossa. Le mie due famiglie, paterna e materna, sono siciliane da secoli, sento nel mio dna tutti quelli dei popoli che sono passati da qui, mi sento araba, normanna, inglese, francese… Questo fa sì che io mi senta a casa praticamente dappertutto. Ma mai come sullo Stretto.

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