Inno di Mameli, Bella ciao, o…Quattro amici al bar

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di Salvo Barbagallo

 

Sembra che siamo spinti – volenti o nolenti – a una “nuova” resa dei conti, come accadde nel lontano 1945 quando, a conclusione di una guerra sanguinosa, in Italia esplosero gli odi e i rancori e il Paese rischiò una spaccatura irreversibile. Fortunatamente, con tanti sacrifici, quella terribile fase venne superata e nacque una Repubblica, la “nostra” Repubblica democratica. Il Paese risorse su basi solide ma lasciando ferite che spesso non vennero sanate in maniera definitiva. Per lungo tempo sono rimaste anche fratture “etnico-territoriali”, la diffidenza tra chi stava al Nord e chi stava al Sud considerato “retrogrado”. Oggi, mentre ancora si combatte un altro tipo di guerra, con un nemico – il Coronavirus – che non guarda in faccia nessuno e non fa distinzione tra “nordisti” e “sudisti”, l’occasione di una ricorrenza fondamentale per l’identità di una collettività nazionale, vediamo tematiche che ripropongono (forse pretestuosamente) pericolose contrapposizioni. Così mentre dipendenti e musicisti del teatro La Fenice di Venezia celebrano la Festa della Liberazione del 25 aprile cantando l’Inno di Mameli, dall’altra parte c’è chi tenta d’imporre come Inno di tutti “Bella ciao”…. Sembra paradossale nel momento difficile che ogni Italiano attraversa, lottando disperatamente per superare l’emergenza, ci sia chi vuole approfittare della situazione per dare un “colore” particolare al Paese, ignorando che c’è stata e c’è ancora una “Bandiera” che dovrebbe unire tutti.

Un Paese che vuol definirsi “democratico” deve avere la capacità di raccogliere al suo interno chi la pensa in un modo e chi in un altro: una “diversità” qualsiasi non può e non deve provocare disgregazione e contrapposizioni che, a conclusione, avviano su una strada senza sbocchi e verso il baratro.

Certo i giorni che si sono attraversati e quelli che si parano davanti generano inevitabilmente incertezza: un futuro (immediato) che si deve costruire passo passo che necessita non solo di solidarietà, ma anche di tolleranza. Tanta tolleranza.

Le regole? Dovrebbero essere osservate da tutti: questo si verifica raramente. Da quando esiste l’Uomo c’è sempre stato il bianco e il nero, ma si dimentica che tra bianco e nero c’è stato (e c’è) sempre il “grigio”, quella “zona grigia dove spesso si annida e si nasconde la malafede che poi opera, occultata da alibi e paraventi, per alimentare gli “opposti” con l’obbiettivo di “liberarsi” di qualcuno o di qualcosa che dà fastidio, che è “fuori dal coro”.

E la “Democrazia”? Quella è un altro discorso: ci si appella quando fa comodo.

“Fratelli d’Italia”? Così dovrebbe essere, ma poi non è.

Allora preferiamo i versi (non una semplice “canzonetta”) di Gino Paoli, le cui parole dovrebbero insegnare a guardare avanti, senza discriminazioni, perché tutto si ripete, e solo apparentemente tutto cambia.

Eravamo quattro amici al bar
Che volevano cambiare il mondo
Destinati a qualche cosa in più
Che a una donna ed un impiego in banca
Si parlava con profondità di anarchia e di libertà
Tra un bicchier di coca ed un caffè
Tiravi fuori i tuoi perché e proponevi i tuoi farò.
Eravamo tre amici al bar
Uno si è impiegato in una banca
Si può fare molto pure in tre
Mentre gli altri se ne stanno a casa
Si parlava in tutta onestà di individui e solidarietà
Tra un bicchier di vino ed un caffè
Tiravi fuori i tuoi perché e proponevi i tuoi però.
Eravamo due amici al bar
Uno è andato con la donna al mare
I più forti però siamo noi
Qui non serve mica essere in tanti
Si parlava con tenacità di speranze e possibilità
Tra un bicchier di whisky ed un caffè
Tiravi fuori i tuoi perché e proponevi i tuoi sarò.
Son rimasto io da solo al bar
Gli altri sono tutti quanti a casa
E quest’oggi verso le tre son venuti quattro ragazzini
Son seduti lì vicino a me con davanti due coche e due caffè
Li sentivo chiacchierare han deciso di cambiare
Tutto questo mondo che non va.
Sono qui con quattro amici al bar
Che hanno voglia di cambiare il mondo.

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