Rileggere Notre D(r)ame

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di Luciana Cusimano

 

A più di 24 ore da uno di quei giorni che, tristemente, non dimenticheremo mai, superato l’iniziale dolore e la paura per la minaccia incombente di una perdita così immane e irreparabile, raccogliamo le forze e raduniamo la speranza.

Rileggiamo i fatti sotto una prospettiva meno nera del denso fumo che ha appannato Parigi e che ha annebbiato le nostre menti.
Non sappiamo e, forse, non sapremo mai con certezza quali dinamiche hanno realmente connotato questo “incidente”, ma sappiamo quanto dolore abbiamo provato un po’ tutti, sia chi a Parigi c’è già stato, sia chi ha rimpianto di aver così a lungo rinviato un appuntamento con la Bellezza della Vita.
Sappiamo quanto spaventosa sia la sensazione di impotenza di fronte a una tragedia che si consuma e arde così velocemente da annullare la capacità di pensare.
Sappiamo quanto relativa sia la dimensione temporale che abbiamo creato per scandire e riempire di senso i nostri giorni. Secoli per costruire e arricchire. Anni per consolidare. Attimi per distruggere. L’eternità per non dimenticare.
Sappiamo, ora più che mai, quanto tutto sia fugace e quanto sia importante preservare la Memoria. E allora, coltiviamola, riscopriamola e teniamola viva, come una fiaccola accesa, e facciamolo a partire da quel “classico” che ha consentito a Notre Dame di trionfare sul tempo e l’incuria fino a ieri.
Del “presagio” annunciato e della “profezia” di fuoco di Victor Hugo si è già ampiamente parlato, ma qualcosa di (forse) più importante, tra le sue righe, è stato tralasciato.
La forza evocativa della parola, ora, deve indurci a meditare.
Ricostruire si deve e lo si potrà fare presto e ancora meglio solo con tanta buona volontà, uniti nello sforzo e nell’impegno.
Sulle sue rovine si possono distinguere tre generi di lesioni che la intaccano, tutte e tre a diverse profondità: innanzitutto il tempo che ha spietatamente sbrecciato qua e là e corroso in ogni punto la sua superficie, poi le rivoluzioni politiche e religiose che, cieche e violente per loro stessa natura, le si sono scagliate addosso tumultuosamente…; infine, le mode, sempre più grottesche e sciocche. Del resto, Notre Dame di Paris non è per niente quel che si può dire un monumento completo, definito, classificato… È un edificio della transizione.
Quella croce di fiamme che campeggiava sotto il cielo di Parigi ha stretto i cuori ma il suo ricordo può illuminare le menti.
Bisogna sapere affrontare l’ “ANÀNCHE (n.d.a. il fato, l’ineluttabile destino, la necessità) queste maiuscole grache, annerite dal tempo e scolpite piuttosto profondamente nella pietra… ma soprattutto il senso lugubre e fatale che esse racchiudono. Già da parecchi secoli, l’uomo che ha scritto questa parola sul muro è scomparso dal novero delle generazioni, la parola, a sua volta, è scomparsa dal muro della chiesa, forse la stessa chiesa scomparirà ben presto dalla faccia della terra. Sulla faccia di questa vecchia regina delle cattedrali, accanto a ogni ruga si trova sempre una cicatrice. Tempus edax, homo edacior. E io tradurrei volentieri così: Il tempo è cieco e l’uomo è stolto. Se ci fosse dato di esaminare con il lettore, a una a una, le diverse tracce di distruzione segnate nell’antica chiesa, vedremmo che la parte minore spetta al tempo e la peggiore agli uomini, soprattutto quelli “del mestiere”…“.
Perché, comunque la si veda, è l’uomo causa ed effetto del suo Male. Ogni forma di incuria, negligenza, pressapochismo, leggerezza non si può più tollerare.
Con Notre Dame è bruciato il cuore della storia di una civiltà intera. E in quel rogo ardente si è spento un pezzetto del cuore di tutti noi. Ma dalle ceneri si può e si deve rinascere.
Se è vero, come è vero, che l’inizio della fine si diparte dal rovesciamento delle tradizioni e prosegue quando deragliano i costumi, quando si tende a sovvertire l’ordine naturale delle cose, si sottovaluta e trascura la Cultura della Bellezza, si cerca di calpestare e cancellare le tracce della Memoria, è proprio da lì che bisogna ripartire per non rassegnarsi e non arretrare.
Non sappiamo quanto veloce e inesorabile può essere il declino di un’epoca e se la nostra società dovrà affrontare un nuovo Medioevo. Se sì, potrà farlo solo se adeguatamente preparata e pronta.
Sicuramente non sarà lo stesso buio Medioevo che abbiamo conosciuto, sarà pervaso da una forma di oscurantismo molto diversa, sarà fatto di polemiche fuorvianti e destabilizzanti, volto a confondere le idee, a creare pretestuose divisioni e schieramenti, sfrutterà la logica del travisamento gratuito, della caccia alle streghe ovvero delle diverse opinioni, dell’odio, dello scandalo montato ad arte.
E allora, dovremo mostrare granitiche certezze, inossidabili ideali. Per affrontare questo, non possiamo più temporeggiare: dobbiamo consolidare i nostri valori, elevarli a “cattedrali” di pensiero. È il tempo di queste “cattedrali”.
I grandi edifici, come le grandi montagne, sono opera dei secoli. Spesso l’arte si trasforma nel corso stessi dei lavori: pendent opera interrupta; vengono continuati tranquillamente secondo l’arte trasformata. La nuova arte prende il monumento al punto in cui lo trova, vi si incrosta, se lo assimila, lo sviluppa a modo suo e lo porta a termine se può. La cosa si compie senza disordine, senza sforzo, senza reazione, secondo una legge naturale e tranquilla. È un trapianto che interviene, una linfa che circola, una vegetazione che riprende. Certo, vi è materia per enormi volumi e spesso storia universale per l’umanità, in queste saldature successive di diverse arti a più livelli sullo stesso monumento. L’uomo, l’artista, l’individuo svaniscono su queste grandi masse drnza nome d’autore; l’intelligenza umana vi si riassume e totalizza. Il tempo è l’architetto, il popolo è muratore.
Sarà solo così che Esmeralda riprenderà a ballare, Quasimodo suonerà le sue campane spiegate a festa e i gargoyle torneranno severamente a vigilare.

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