In Libia c’è anche Leptis Magna

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di Agostino Spataro

 

“Giungiamo a Leptis Magna prima di mezzogiorno. Ci atten­dono tre ragazzi (due maschi e una donna) della missione archeo­logica dell’università di Roma impegnati nei lavori di restauro del sontuoso arco di Settimo Severo.
Ai nostri occhi si presenta uno spettacolo davvero unico, esaltante.
La maestosità e l’ottimo stato di conservazione degli edifici e delle vie consentono di ammirare, in tutto il suo splendore, una grande città romana.
“Questa città, una vera perla incastonata fra il deserto e il mare, è una testimonianza del passaggio di Roma verso il nord Africa; ma­estoso monumento, fondato dai fenici, che deve il suo splendore all’impero dei Cesari e di Settimo Severo, suo figlio diletto… In poco più di un secolo e mezzo, furono costruiti: il calcidicum, il tempio di Roma ed Augusto, il vecchio Foro, gli archi di Tiberio, Vespasiano, Traiano, Settimo Severo e Marco Aurelio; i templi de­gli Augusti, del Libero Padre e di Ercole, della Grande Madre o Cibale, gli acquedotti, le terme di Adriano e il santuario in onore dell’imperatore Antonino Pio.” [1]

E ancora, il nuovo foro, il mercato, il teatro, il ginnasio, la basilica e tanto altro.
Tutto si è salvato sotto le sabbie del deserto giunto fino al mare. Erette o per terra, le rovine sono ancora qui. Intatte o quasi. Come in altre regioni dell’immenso Sahara, la sabbia, da nemico mortale della natura e delle genti, si è trasformata nel migliore custode de­gli splendori di civiltà sepolte che diversamente non avremmo po­tuto ammirare.
Penso anche ai templi della civiltà sabea, dove officiava e gover­nava Bilqis la celebre regina di Saba, di Palmira in Siria, ai tanti tesori dell’antico Egitto, della Mesopotamia, ecc.
Grazie a queste sabbie, bionde e sericee, Leptis si è conservata e oggi, in gran parte, è stata riportata alla luce dagli scavi con-dotti, in oltre mezzo secolo, da varie missioni archeologiche italiane.

Il risultato, davvero brillante, è sotto gli occhi di tutti: credo non sia esagerato dire che per vedere l’antichità romana più auten­tica bisogna venire a Leptis Magna.
Domando al capo missione quali fossero i rapporti con le auto­rità libiche.
Risponde che, all’inizio, non mostrarono grande interesse per la ricerca archeologica poiché consideravano quelle rovine estranee alla loro civiltà, perfino come simboli di un’antica oppressione.
Una visione, d’altra parte, in sintonia col manicheismo islamico secondo cui tutto quello che era prima della Rivelazione (a Mao­metto) è “jahaliya”ossia il caos, il male, mentre è bene tutto quello che è venuto dopo.

Per aggirare l’ostacolo e suscitare l’interesse delle autorità, gli ar­cheologi italiani, testi alla mano, dimostrarono che al tempo dei romani qui viveva la tribù dei “Libo” dalla quale discendono i li­bici contemporanei. Lo stesso imperatore Settimo Severo nacque nato a Leptis Magna da una famiglia libo.
Pertanto, un libo/libico assurse alla più alta magistratura di Roma imperiale.
Sulla base di tali argomenti, pare che Gheddafi si sia convinto a prestare l’assistenza necessaria alle missioni italiane. Oggi esiste una proficua collaborazione fra i due Paesi: l’Italia fornisce i tec­nici, gli archeologi e la Libia i mezzi finanziari e il personale di scavo. L’area centrale della città è già tutta alla luce, ma la gran parte è ancora da scoprire.

Visitiamo la grande piazza del mercato. È molto interessante, per­fino commovente osservare i banchi di pietra dove si vendevano il pesce, le carni, i tessuti, ecc.
Di fianco, c’è una lapide sulla quale sono intagliate le unità di mi­sura dell’epoca: il braccio punico e il piede romano.
Due arti importantissimi, due simboli, qui, riuniti in un mirabile esempio di fusione di due civiltà così distinte e contrapposte.
Lungo i cardi e i decumani, davanti alle abitazioni si notano tavo­lette con sopra incisi enormi simboli fallici che la guida ci dice gli antichi esponevano contro il malocchio.
Più avanti i resti di un abbeveratoio e le relative condutture di ad­duzione dell’acqua provenienti da una cisterna.
Il teatro è di rara magnificenza. E’ tutto un grande spettacolo di eleganti architetture armonizzate con la natura circostante: il mare, le dune di sabbia finissima, i frutteti.

Terminata la passeggiata archeologica, i ragazzi della mis­sione ci invitano nel loro appartamento, ricavato nei locali sovra­stanti il piccolo antiquarium.
L’edificio è immerso nella fresca quiete di un giardino di frutta e di verdure. Con fare circospetto, i tre archeologi ci introducono in un ripostiglio nascosto da una tenda, promettendoci una piacevole sorpresa. Pensai a un pezzo raro o comunque a una curiosità legata al loro lavoro. Invece…
Aprono la tenda e appare un rudimentale meccanismo per la fabbricazione della birra. Una piccola fabbrica clandestina, s’intende. Assaggiamo volentieri. Da una settimana, beviamo soltanto acqua minerale e una specie di gassosa insipida, perciò la birra fredda de­gli archeologi è davvero una squisitezza da pub inglese.

Arrivano Susanna Agnelli e l’ambasciatore Quaroni, reduci dall’incontro con Triki. Il sottosegretario ha poco tempo a disposi­zione.
Una visita veloce al teatro e all’agorà e via, di corsa, verso Homs, al cantiere del consorzio italiano “Impregilo” di cui è capofila la madre Fiat.
Qui si sta costruendo un nuovo grande porto militare. Un ingegnere ci accoglie tutto emozionato. Non capita tutti i giorni vedere sul posto di lavoro uno dei titolari della ditta, per giunta nelle vesti di rappresentante ufficiale del governo italiano.
Ci illustra le caratteristiche del progetto, davvero ambizioso ris­petto alla consistenza della marina militare libica.
Forse, pensano di ricevere “ospiti”. I sospetti si appuntano sulle mire sovietiche ad avere, dopo quello di Tartous in Siria, un altro buon approdo nel Mediterraneo centrale.
I lavori sono a buon punto: dal mare affiorano i lunghi bracci, i moli e le altre infrastrutture del grande porto.

Al pranzo (ottimo) partecipano i dirigenti e i tecnici del consorzio con le rispettive consorti che hanno seguito i mariti in questo lembo d’Africa.
Vita difficile per le signore, costrette a vivere, isolate, dentro roventi prefabbricati metallici, un po’ simili a quelli dei terremotati dell’Irpinia.
Questi, però, sono dotati di tutti i confort, in particolare, dell’impianto di aria condizionata, di vitale importanza.
L’ambasciatore freme per rientrare a Tripoli dove, nel pomeriggio, la signora Agnelli è attesa a casa di Triki per il tè, probabilmente per continuare, al riparo da occhi indiscreti, i collo­qui della mattina.”

*da (https://www.amazon.it/NELLA-LIBIA-GHEDDAFI-Cen…/…/B00DSQ1WEG)

Da sin. dopo la sen. Susanna Agnelli, l’amb. italiano a Tripoli Quaroni e on. Agostino Spataro del Pci

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