Un ricordo di Bruno Caruso

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di Valter Vecellio

 

In questo spazio cercherò di dire qualcosa su Bruno Caruso, il grande artista, morto qualche giorno fa a 91 anni. Si sapeva che non stava bene, da tempo ritirato; eppure, anche se non sorpresa, la sua morte procura malinconia. Era parte di uno straordinario cenacolo: con Leonardo Sciascia, Fabrizio Clerici, Natale Tedesco, Enzo Sellerio; e poi Francesco Rosi, Antonello Trombadori. Uno spettacolo, vederli assieme, ascoltarli, vederli, aver la fortuna di condividere qualche momento della loro vita.

Caruso con i suoi quadri, la sua pittura, la sua arte, racconta il bene e il male della sua amata terra di Sicilia. I suoi disegni, le sue incisioni, raffigurano i volti dolenti e fieri, silenziosi ed eloquenti, dei contadini impegnati nella lotta contro la mafia e per l’occupazione delle terre; gli zolfatari che in condizioni impossibili scavano nelle viscere della terra… E quel mafioso che arrogante e beffardo dice: “Noi facciamo quello che ci pare e piace”. Lui no, era di quelli che non volevano che i mafiosi facessero quello che volevano, impuniti e impunemente. Li raffigurava grotteschi e “vivi”, e ogni suo disegno, pubblicato dalla palermitana “L’Ora”, colpiva nel segno. Nella sua arte l’impegno militante mai al servizio di un partito, sempre al fianco di una “parte” sociale, gli “ultimi”: contro le emarginazioni e le discriminazioni di ogni tipo.

Bellissime e tremende le grafiche che “raccontano” del manicomio di Palermo: le condizioni degli ospedali psichiatrici, le camicie di forza, le terribili condizioni igienico sanitarie, le torture. “La ragione è anche una passione”, scrive Sciascia, “ed è un pensiero che affiora, che si precisa, che prende articolazione di fronte alle pitture e ai disegni di Bruno Caruso”.

C’è una vicenda che dà la qualità dell’uomo, la sua misura. Maggio del 1977 Sciascia, che è ancora consigliere comunale a Palermo (indipendente eletto nelle liste del PCI), si incontra con Enrico Berlinguer, nella sede di allora del partito, il palazzone di via delle Botteghe Oscure. Parlano di cose che riguardano la Sicilia; è accompagnato da Renato Guttuso, che ha fatto da tramite per ottenere l’appuntamento.

Il giorno prima c’era stato l’incontro di una delegazione democristiana con una delegazione comunista; secondo i giornali e la televisione in questo incontro si era anche parlato di una potenza o di potenze straniere che potessero avere mano nel terrorismo italiano. A un certo punto, finito il colloquio sulle cose siciliane con Berlinguer, Guttuso domanda se sia vero che avevano parlato di Paesi stranieri, e se uno di questi Paesi stranieri era la Cecoslovacchia. Berlinguer risponde di sì; e del resto non era una confidenza, non era un segreto, perché tutti ne parlavano. Berlinguer non fa altro che riferire un sentito dire, l’aveva sentito dai democristiani, ne era a conoscenza, e lo diceva. Lo stesso giorno dell’incontro con Berlinguer, Sciascia viene invitato a colazione dal pittore Bruno Caruso, al quale racconta questo fatto, esprimendo anche un senso di ammirazione per la sincerità di Berlinguer: come un elogio nei riguardi di Berlinguer, che era tanto spregiudicato e tanto libero da ammettere che si fosse parlato di quella cosa. Passati due anni, Sciascia è deputato eletto nelle liste del Partito Radicale, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda Moro. A un certo punto viene un eminente democristiano, al quale chiede se sa qualcosa di potenze straniere che danno una mano al terrorismo italiano, di sospetti, di indizi. L’eminente democristiano dice di non saperne nulla, al che Sciascia ribatte: “Guardi, due anni fa, io ho avuto fortuitamente un incontro con Berlinguer, il quale mi ha raccontato tranquillamente questa cosa: quindi com’è che lei non ne sa nulla?”.

Tutto qui, l’intervento di Sciascia in Commissione Moro. Da lì però, esce alquanto deformato: come se Berlinguer avesse fatto delle confidenze su cose che risultavano a lui e non che lui avesse saputo dai democristiani. Questa deformazione provoca la smentita di Berlinguer, e in seguito la querela per diffamazione. Sciascia replica con una denuncia per calunnia. Guttuso è il testimone chiave, ma si allinea con Berlinguer, smentendo Sciascia. Tra la verità e il partito, Guttuso sceglie il partito.

Racconta Caruso: “Tutto avrebbe potuto immaginare Leonardo tranne che il suo amico Renato potesse sconfessarlo. Ed invece, questo avvenne, suscitando in Sciascia sgomento per il tradimento dell’amico, e disgusto per la sottesa accusa d’esser un mentitore. Da uomo mite sì ma, anche orgoglioso, quale era non accettò di soccombere ma, punto su punto, ribadì quanto aveva riferito. Com’era nelle cose, visto il livello al quale era giunta la polemica, Berlinguer querelò Sciascia per diffamazione supportando la propria richiesta con la testimonianza del fedele Guttuso. Sciascia, per nulla intimidito, ricorse anche lui alle aule giudiziarie, denunciando il segretario del PCI per calunnia “in quanto lo aveva querelato pur sapendolo innocente della diffamazione”. E Guttuso, mettendo le mani avanti, nel corso di una trasmissione televisiva non si era fatto scrupolo di dare del “mafioso” allo stesso Sciascia in quanto avrebbe voluto per amicizia costringerlo a mentire. Venne dunque istruito il processo nel quale, stranamente, nonostante la difesa del presunto diffamante, cioè di Sciascia, avesse citato dei testimoni, non furono ascoltati. Il magistrato diede sbrigativamente torto a Sciascia e ragione a Berlinguer, forte del principio che due voci valgono più di una: quella di Sciascia contro quella di Guttuso e Berlinguer”.

La vicenda si chiude senza conseguenze penali per Sciascia: processo archiviato perché il fatto, cioè la rivelazione di Sciascia, era avvenuta in sede parlamentare. Da allora, racconta “Caruso, “né Sciascia, né io, né alcuno dei nostri amici siciliani volle più né rivedere né salutare l’ex amico Renato Guttuso”.

Da LA VOCE DI NEW YORK

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