Mario Mori: “Non accetto d’essere considerato un traditore”

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Tra il caso di Enzo Tortora, di cui ricorre in questi giorni il trentennale dalla morte, e quello che vede oggi protagonista il generale dei Carabinieri Mario Mori si può tirare un filo continuo che in qualche modo lega due “vicende sconcertanti”. In entrambi i casi – sostiene l’avvocato Gian Domenico Caiazza – “la vicenda processuale trascende il suo merito, per assumere un valore simbolico“. In sostanza, nei due processi si verifica uno scontro che non ha a che fare con il merito, per cui “l’assurdità tecnica dell’imputazione”, viene trascurata, perché la partita è un’altra e investe “la reputazione e la credibilità politica della procura”.

Questi aspetti sono stati oggetto – fra gli altri – dell’Assemblea pubblica organizzata dal Partito radicale, per la giustizia giusta, nel corso della quale Mario Mori ha fatto la sua prima uscita pubblica, dopo la sentenza di condanna.

Imputato da più di 15 anni in servizio permanente, nel ricostruire i fatti, Mario Mori si è detto “sereno e pronto “a combattere sicuro di essere nel giusto, di aver rispettato la leggi e, soprattutto, l’etica professionale”.

Il generale Mario Mori

Così si è espresso Mario Mori: Non accetto di essere considerato un traditore dello Stato, un fellone come si diceva una volta e continuerò a lottare fino in fondo certo che alla fine vincerò. Sono partito dalla parte della giustizia – ha spiegato Mori – e mi trovo dall’altra parte: questo è doloroso per un ufficiale dei carabinieri. Da 15 anni faccio l’imputato e sono incazzato, ma sono un agonista, ho bisogno di un nemico, le battaglie mi danno forza. Il generale ha quindi ricostruito le sue vicende processuali individuando nell’inchiesta cosiddetta mafia-appalti del 1989 il punto di partenza della frattura tra procura di Palermo e Ros dei carabinieri (…). Non si può comprendere il mio caso – ha sottolineato il generale – se non si parte dal 1989, quando Giuseppe De Donno  iniziò un’investigazione su quello che appariva un ‘modesto omicidio, ma dal quale emerse poi un contesto in cui la gestione degli appalti pubblici in Sicilia e altrove era guidata da un direttorio costituito da Cosa Nostra, imprenditori e politici (…) Dell’indagine si interessò Giovanni Falcone fino a quando non fu trasferito al ministero a Roma. Lui insistette perché consegnassimo l’informativa, ma noi non eravamo convinti perché volevamo più tempo. Alla fine ci convinse e l’inchiesta mafia-appalti per 3-4 mesi sparì nel nulla, finché nel 1991 la procura emise 5 ordinanze di custodia cautelare: la montagna aveva partorito il topolino. L’informativa fu consegnata agli avvocati ed a quel punto anche la mafia seppe dove eravamo arrivati. Questo ci fece arrabbiare e lo dicemmo al procuratore della Repubblica: ci fu quindi grande crisi tra Procura e Ros (…) Nel 1992 fu ucciso Falcone e Paolo Borsellino chiese di parlare con me e Giuseppe De Donno (suo collaboratore nel Ros, ndr). Ci incontrammo nella caserma Carini di Palermo. Lui era convinto che l’inchiesta mafia-appalti fosse la causa dell’uccisione di Falcone, io non ero convinto perché potevano anche esserci altre cause. Borsellino riteneva comunque che quell’indagine era il sistema migliore per ‘entrare dentro Cosa Nostra e chiese che il Ros indagasse. Il 19 luglio fu ucciso anche lui, ma pochi giorni prima, il 13 luglio, due magistrati di Palermo chiesero l’archiviazione dell’inchiesta ed il 22 luglio il procuratore Giammanco firmò la richiesta di archiviazione che fu accordata il 14 agosto.  A quel punto io ruppi pesantemente con la Procura e queste vicende hanno dato vita ad una serie di incomprensioni. Non dico che tutta la ragione sta dalla mia parte, ma io e De Donno ci siamo comportati secondo la nostra etica professionale. La frattura riemerse poi con la cattura di Riina, forse il maggiore successo nella lotta alla mafia. Da lì è cominciato il confronto che non ha mai avuto fine (…).

A margine dell’assemblea del Partito radicale alla quale ha partecipato insieme allo stesso Mori, l’ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno, ha affermato: Noi abbiamo fatto sempre il nostro dovere, non abbiamo nulla da rimproverarci e faremo appello. Altri invece si devono vergognare di quello che hanno fatto (…). Al processo oltre 200 documenti e 50 testi a nostro favore non sono stati ammessi, abbiamo fatto il nostro lavoro con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, usando le armi che lo Stato ci dà (…).

L’Assemblea sul “caso Mori” è stata una delle iniziative organizzate dal Partito Radicale in occasione degli anniversari della scomparsa di Emilio Vesce, Enzo Tortora, Marco Pannella e Adelaide Aglietta, impegnati nella lotta per la “Giustizia Giusta.

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