La scomparsa di Paolo Villaggio

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di Valter Vecellio

 

Paolo Villaggio (Genova, 30 dicembre 1932- Roma, 3 luglio 2017) in una recente immagine per il premio alla carriera dell’Associazione amici di Piero Chiara (Immagine da Flicker)

03 Lug 2017

Il ricordo di Paolo Villaggio, un attore di spessore ben oltre il suo personaggio del ragionier Fantozzi, come quando interpretò il ruolo di Giuseppe De Metrio, emigrato pugliese in Svizzera. La sua genialità anche nel saper raccontare cose vere che sembravano incredibili, come quando partecipò alla nascita di una canzone del suo amico Fabrizio De Andrè. Uno dei suoi ultimi messaggi: “Non abbiate paura di essere soli nell’incapacità di essere felici, in questa Italia di merda siamo tutti Fantozzi”

Tutta colpa di una scommessa persa, e di un topo mangiato come pegno. Magari è una balla, come spesso solo lui sapeva raccontarne; ma la sua genialità non consisteva nel raccontare balle che sembrassero credibili. Era piuttosto il contrario: raccontava cose vere, in maniera che sembrassero incredibili e fantastiche. Parlo di Paolo Villaggio, che ci ha lasciato l’altro giorno.

La storia del topo mangiato e della scommessa l’ho imparata molti anni fa, a Locarno, in Svizzera. Ci vado ogni anno da anni, per il Festival internazionale del cinema. Quell’anno – mi pare il 2000 – tra i film proiettati Azzurro”, del regista ticinese Denis Rabaglia. Film drammatico, sia pure con “leggerezza”. Protagonisti Paolo Villaggio, che interpreta il personaggio di Giuseppe De Metrio; e una bimbetta, Francesca Pipoli, straordinaria: doveva interpretare il ruolo di una ragazzina cieca; e non è facile, lei è stata molto brava; ma bravissimo anche Paolo. “Azzurro” è la storia di un nonno che dopo anni di lavoro come muratore in Svizzera, torna a casa nel Salento. La nipotina è affetta da una grave malattia agli occhi. Giuseppe non ha altra carta da giocare se non quella di tornare in Svizzera, per chiedere aiuto al suo ex datore di lavoro, che ha nei suoi confronti un grosso debito, non solo morale. La storia è lunga, complessa, c’è infine un happy end amaro. Non è questo: è che Villaggio, al pari di Totò, di Peppino De Filippo, di altri grandi interpreti troppe volte pigramente inchiodati nei loro cliché, quando trovano dei registi di polso e di cervello, sa dare il meglio di sé; ed è un “meglio” che sorprende. La voce in “Azzurro” è indiscutibilmente quella di Villaggio; che riesce a parlare con l’intonazione di un muratore pugliese che ha imparato il francese “per strada”. Quel suo italo-franco-pugliese è una delle cose straordinarie del film, e rivela la cifra di quest’attore.

Presentato a Locarno (Pardo d’oro alla carriera), com’è consuetudine di quel festival, regista e interpreti si sono intrattenuti per un paio di giorni con giornalisti e frequentatori del festival. Del resto, Locarno è minuscola, difficile non incontrare qualcuno, se solo si passeggia per un paio d’ore.

Ed eccoci al topo, alla scommessa. Seduto al tavolino di un caffè della piazza Grande, Villaggio racconta di sé, dei suoi inizi. Di quando viveva a Genova, amico di un cantautore di difficile classificazione, Fabrizio De André; e di come per lui aveva scritto il testo di una bizzarra canzone, “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”:Fabrizio era un cadavere, quel ‘pasto’ gli mette i brividi. Prende la chitarra e suona qualche accordo: così mi passa… Sarà stato quel topo sullo stomaco, sarà stato il vino bevuto per ‘annegarlo’, quello che volete: suona un motivo molto bello. Dico a Fabrizio: ‘Sembra una musica trovadorica’. E lui: ‘Sei un patito di storia medievale, perché non mi aiuti a scrivere le parole?’. E andata così.

Cinque minuti e mezzo di canzone, incisa una prima volta nel 1963 e successivamente nel 1967 nel disco “Volume 1”.

Musica solenne, linguaggio aulico e sarcastico; Villaggio immagina un Carlo Martello che nulla ha da spartire con la mitologia medioevale dell’onore e della “cavalleria”. Carlo Martello, di ritorno dalle crociate, ha solo un obiettivo: sfogare i suoi appetiti sessuali: “Ma più che del corpo le ferite, / da Carlo son sentite / le bramosie d’amor”. Incontra una prostituta; e al momento di pagare per le prestazioni avute, non trova di meglio che darsela a gambe levate: “E’ mai possibile, o porco di un cane, / che le avventure in codesto reame / debban risolversi tutte con grandi puttane? / Anche sul prezzo c’è poi da ridire: / ben mi ricordo che pria di partire / v’eran tariffe inferiori alle tremila lire”.

Per Villaggio credo si possa dire che vale l’epitaffio che Paolo Giovio sembra abbia coniato per Piero l’Aretino: “Qui giace l’Aretin, poeta tosco: / di tutti disse mal fuorché di Cristo, / scusandosi col dir: non lo conosco”.

Con due differenze: Paolo amava scherzare coi fanti, ma soprattutto con i santi; e non ne parlava “male”. In lui non c’era cattiveria. Semplicemente era uno spiritaccio acre, iconoclasta, che non amava la retorica sotto nessuna delle sue molteplici forme; avversario di ogni luogo comune e del moralismo ipocrita. Capace, con disarmante candore di teorizzare che Madre Teresa di Calcutta, proprio perché unanimemente considerata il simbolo della carità e della bontà, doveva essere nell’intimo persona perfida, che trovava soddisfazione nel colpevolizzare quanti non erano capaci di altrettanta carità e bontà.

E ancora: “Ho un sospetto che è quasi una certezza: questo papa argentino che è così furbo e così abile, che ha semplificato il linguaggio e che è così amato, sinceramente mi sembra che abbia paura della morte. Questo papa, come tutti i papi, sa che non esiste l’aldilà promesso dei cattolici”.

Un tipo che, fondamentalmente anarchico e libertario era capace di mettersi al fianco, in momenti non facili, di Marco Pannella e del Partito Radicale, e di accettare di essere un candidato di “bandiera”, in rigoroso ordine alfabetico.

Mi accorgo, ora che mi avvicino alla “chiusura” di non aver parlato per nulla del suo personaggio principe, il ragionier Ugo Fantozzi; di altre “maschere” come il timidissimo Giandomenico Fracchia o il professor Kranz; dei film diretti da “giganti” come Federico Fellini, Marco Ferreri, Mario Monicelli, Ermanno Olmi, Lina Wertmuller; del Leone d’oro alla carriera nel 1992. Il direttore de “La Voce” mi perdonerà per queste omissioni. Di questo scriveranno e parleranno in tanti, amici, colleghi, critici. Ho preferito qualche aneddoto poco conosciuto, e che dà comunque la cifra, lo spessore, la qualità, del personaggio. Poi, dovesse capitare di imbattersi nei suoi libri (ne ha scritti parecchi, aveva anche una buona vena), non se li lasci scappare. Sono sberleffi di genio, amari, beffardi; divertono e fanno pensare.

Qui mi limito a riportare quello che lo stesso Villaggio racconta a Mario Sesti, per il suo documentario “La voce di Fantozzi:

“Esattamente non ricordo il giorno, l’ora, l’anno in cui nasce Fantozzi. Nasce a bocconcini, a pezzetti. La cosa più importante è che ha una caratteristica: è sfortunato, è infelice, non è riuscito nella vita, ha una moglie che sembra una rana, una figlia che sembra una scimmia e tutto naturalmente è esagerato, perché l’esagerazione è convincente, è comica, fa ridere. L’idea di base era la possibilità di usare questo personaggio che nasce con la caratteristica fondamentale di non riuscire nella vita. La sua comicità ha qualcosa in comune al 99 per cento degli italiani e quindi è fondamentalmente un personaggio che conforta: non siamo tutti fortunati, anzi, siamo quasi tutti convinti di essere molto sfortunati”.

Come nasce il Villaggio che poi conosciamo? Dobbiamo ringraziare Maurizio Costanzo, che una sera lo va a trovare nel piccolo teatro di Genova dove fa cabaret con l’amico De Andrè: “Qualcuno dietro le quinte mi disse: «C’è un signore piccolo, brutto e grasso che le vuol parlare». E io dico: «Proprio in questo momento? Ditegli di tornare tra un mese». Mi dissero: «Ma è di passaggio, è venuto apposta». Lo incontro e mi dice: «Guardi, sono un giornalista di “Grazia”, se vuole avere successo venga a Roma con me». Io l’ho guardato e ho detto a mia moglie che era con me: «Che faccio, vado?» E mia moglie mi ha detto: «Lascia sempre il certo per l’incerto». E io che avevo la certezza di continuare a lavorare in questo teatrino di piazza Marsala a Genova che era forse il posto più frequentato dagli snob, dai ricchi, ho detto: «Che faccio?» L’indomani mattina sono partito da solo. A La Spezia il treno si è fermato e abbiamo continuato in pullman perché c’è stato uno sciopero ferroviario gigantesco, quindi dalla partenza non sembrava che fossi destinato al successo”.

E invece…

In una delle sue ultime uscite pubbliche aveva detto: “Fantozzi siamo tutti noi. Manda un messaggio rassicurante: non abbiate paura, non siete soli ad avere questa incapacità di essere felici. In quest’Italia di merda siamo tutti Fantozzi”.

Fino alla fine, uno sberleffo. Di genio.

LA VOCE DI NEW YORK

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