Vita digitale e tecnologia disumanizzante

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di Giuseppe Stefano Proiti

“Ormai abbiamo in tasca il mondo intero. In pochi centimetri di plastica e microchip – scrive lo psichiatra Vittorino Andreoli nel suo libro – sono racchiuse infinite possibilità di comunicare, informarsi, divertirsi, concludere un affare e addirittura innamorarsi. È il telefonino (o smartphone, tablet): simbolo dell’era digitale, strumento che incarna e riassume il bisogno tutto umano di parlare, ascoltare, capire”.

Ma siamo davvero sicuri che “l’era della tecnologia” sia la migliore delle “ere”? Certo, la tecnologia ha indubbiamente apportato dei vantaggi inimmaginabili all’uomo moderno. Ha accorciato le distanze spazio-temporali dando immediatezza alla comunicazione. Tuttavia, vi sono alcuni nodi aporetici intrinseci all’idea stessa di tecnologia: permangono le debolezze e le fragilità della natura umana. La vita più pratica e veloce che ne consegue ha vituperato il valore della lentezza spingendo l’uomo a correre sempre più rapidamente fino al punto da non potersi nemmeno soffermare nel pensiero e a porsi delle domande.
Esiste un legame tra il concetto di lentezza e lo spazio della riflessione: <<andare lenti – sono parole dello scrittore Franco Cassano – è saper riempire la giornata con un tramonto>>. La paura è che la tecnologia svuoti la mente dell’uomo, modificandola artificialmente ed artificiosamente nelle sue strutture, affidando totalmente questa “procedimentalizzazione della vita” alla “macchina”. Il rischio è che l’uomo della tecnologia si sentirà talmente sollevato dal senso della fatica da dimenticare di compiere le azioni stesse del quotidiano, astraendosi sempre più dalla vera società (human life). Finirà così fra le quattro mura di una stanza, entrerà in una sorta di vita parallela, più facile e più leggera, si, come il volo di un gabbiano, ma che fa parte “della logica dei viventi non umani, regredendo e passando alla fase dei nostri antenati primitivi. Saremo dei primitivi tecnologizzati, ma primitivi”. La paura è che questa società venga annullata e, come una malattia autoimmune, si autodistruggerà chiudendosi nell’individualismo più estremo, nel narcisismo, nell’eccessiva esaltazione del “sé”, con la conseguente rottura dei legami sociali. E’ questo il problema. Le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher: <<La società non esiste>>. La superfetazione dell’Io ci farà indossare milioni di maschere perché l’uomo prendendo ad esempio la perfezione della “macchina” (tramite il mondo internet) la vorrà traslare nella sua personalità creando un “Io ideale”, che non corrisponde a quello “reale”. Si avrà allora una società vocata all’inutile, al superfluo, alla rappresentazione “del se” più appariscente e meno “vivo”. Ecco perché sempre più “uomini” cercano l’ibernazione o sognano tramite le macchine di vivere in eterno, non accettando il ciclo naturale della vita (nascere, crescere, riprodursi, invecchiare, morire); o ancor più gravemente cercare di cambiare la natura di come venire al mondo.

Recenti studi della Cleveland Clinic, nell’Ohio, hanno fatto affermare alla dott.ssa Karine Chung che tra 10 anni sarà possibile portare a termine una gravidanza anche per un maschio attraverso il trapianto di utero. Perché tutte queste complicazioni? Perché non adottare un bambino che non ha avuto la fortuna di avere con sé una famiglia e che soffre nei collegi?
Volendo spostarci dalla visione critica a quella filosofica, è questo uno degli esiti della “Libertà” portata all’estremo delle sue conseguenze. La massima libertà di autodeterminazione dell’uomo reca in sé la possibilità dell’errore, della deriva da se stesso, facendolo a volte approdare laddove non avrebbe mai voluto, ovvero all’egoismo più estremo, alla solitudine, al senso più spaventoso del “non senso” della vita stessa.

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