USA, c’è il clima di un nuovo “Kennedy Day” finale?

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di Salvo Barbagallo

 

Delle elezioni per il nuovo Presidente USA si parlerà ancora a lungo.

Dopo una campagna elettorale Clinton/Trump spudoratamente brutta, fatta da colpi bassi con l’utilizzo massiccio dei mass media “di parte”, ecco che la vittoria di Donald Trump,

con la conquista della prima poltrona degli USA, scatena le proteste di piazza creando un clima di ulteriore tensione. I giochi non sono conclusi? La partita doveva considerarsi terminata nel momento della proclamazione del vincitore ma la contestazione spontanea (?) non fa presagire nulla di buono. Come i mass media hanno divulgato, migliaia di manifestanti per ore hanno assediato la Trump Tower (sulla Fifth Avenue di Manhattan) nei cui appartamenti ai piani alti stava Trump e la sua famiglia. Più che blindata adesso l’area dove ricade la residenza del nuovo Presidente statunitense, il cuore dello shopping e del turismo a Manhattan. L’isolato della Trump Tower circondato da camion anti-bomba con sacchi di sabbia e da decine di agenti alcuni in tenuta antisommossa, i voli sopra la zona sono stati vietati. A Washington Dc in migliaia davanti alla Casa Bianca, manifestazioni a Seattle, Okland, Filadelfia, Boston, Omaha, Kansas City, Los Angeles, San Francisco, Phoenix, in altre città come Portland e Oakland sono state anche appiccate le fiamme a copertoni e cassonetti in strada con l’intervento della polizia. “Not My President” (“Non è il mio presidente”) lo slogan più gettonato, insieme a “Love Trumps Hate” (“L’amore batte l’odio”). Sui social network si sono susseguiti per tutta la giornata gli inviti a nuove proteste. L’inattesa vittoria di Trump ha messo in moto un nuovo meccanismo devastante.

In Italia la “contestazione” alla vittoria di Trump viene principalmente (e come prevedibile) dall’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano: “L’impensabile è accaduto, e occorre ora farsene una ragione e guardare a quel che può seguire, ai rischi che si possono concretizzare non solo per l’America ma per l’Europa e per il mondo, e prepararsi a cogliere contraddizioni e opportunità che possono già intravedersi”. Questo il commento dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un intervento pubblicato sulla Stampa in cui descrive la vittoria di Donald Trump come reazione di chi si sente escluso. E aggiunge che farsene una ragione significa “ragionare su un’ondata di rigetto  che stiamo già vivendo in Europa, da parte di larghi strati sociali e di opinione, di istituzioni e di regole volte tradizionalmente a regolare la vita delle nostre società e dei nostri Stati, la gestione delle relazioni internazionali e lo sviluppo mondiale (…) Questa ondata è intrisa di molta demagogia, irragionevolezza, carica distruttiva e disgregativa e nasce come reazione di tutti i colpiti e gli insoddisfatti dal processo di globalizzazione e dal ruolo, semplicisticamente demonizzato, di ogni tipo di establishment e di ogni assetto di potere”.

Nell’analisi di Giorgio Napolitano mancano, però, le motivazioni degli “insoddisfatti”: Napolitano non si chiede perché la maggior parte della collettività è “insoddisfatta” e da dove nasce, appunto, l’ondata di rigetto.

Nonostante che la campagna elettorale USA si sia snodata in forme poco “civili”, le elezioni si sono svolte “democraticamente” e “democratico” è il risultato scaturito dalle urne. Che piaccia o no il risultato, almeno negli Stati Uniti d’America una consultazione c’è stata: che dire, per quanto attiene l’Italia, dell’elezione a premier di Matteo Renzi dove gli Italiani non hanno avuto nessuna voce in capitolo? Gli Italiani dovevano scendere in piazza e fare le barricate? Il sonno della ragione genera mostri? L’establishment difficilmente perdona. Non è che la protesta voglia intendersi come un forzare la mano?

Se le reazioni del mondo politico italiano (al Governo) devono identificarsi con le parole di Giorgio Napolitano, allora le incognite per il futuro immediato sono destinate a crescere.

 

 

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