La follia dell’uomo vista con altri occhi

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Pubblichiamo oggi un breve racconto della giovane Giorgia Carrasi

Un inebriante profumo di castagne trascinava lo sguardo dei passanti su quei pentoloni enormi che ribollivano di bontà. Stavano sempre un po’ in mezzo alla strada, ad attirare l’attenzione di tutti, a proporsi con fierezza ai viandanti e a sedurli con il loro fascino autunnale.  L’aria era fredda, secca. Le luci bianche dei negozi albeggiavano sulle pozze d’acqua delle aiuole secche e trascurate. Le signore con i loro cappotti si stringevano al marito caro per fare cenno di quella bella borsa griffata che poteva essere un regalo ideale per Natale. Gli uomini panciuti ridevano sotto i baffi facendo finta di assecondare le richieste delle mogliettine. Uno di loro, un ragazzo sulla trentina, avvicina il dito al mento della sua donna e lo lascia scivolare sulla guancia. Lei sorride per la carezza inaspettata, poi si perdono dietro una traversina scura.  Anche io continuavo a camminare e a perdermi tra i colori freddi di quella sera glaciale.  Ero abbagliato dalle vetrine, dai prezzi alti che leggevo e mi chiedevo come certi uomini potessero spendere tanto per oggetti a mio parere inutili e superflui. Eppure sento parlare così spesso di una certa ‘’crisi’’, ma non ne capisco proprio nulla io! Sono solo bravo a osservare, e a sopravvivere, questo sì. Arrivavo in un angolo di strada trascurato, al buio, un posto smarrito nel mondo.  Le crepe dell’asfalto erano così profonde da sembrare burroni, residui di cemento si univano e formavano montagne. Era difficile camminare lì, ma mi incuriosiva perché la trascuratezza di quel posto evocava la stessa persona che vi abitava.  Mi piaceva stare con lui nonostante il suo silenzio. Era come se i suoi pensieri mi parlassero, anche se in realtà era impossibile comunicare. Frequentavo quel posto da parecchi mesi, lui invece si trovava lì da qualche anno, uno o due. Di solito si nascondeva sotto due coperte color senape andato a male,  in testa portava un berretto raccolto chissà dove. Era un gran collezionista. Lo chiamavo ‘’Senza nome’’, perché effettivamente non sapevo come si chiamasse. Non me l’ha mai detto, non si era mai presentato. Lo consideravo il mio migliore amico perché era l’unico che non si spaventava del mio aspetto così diverso dal suo, non mi urlava contro e non mi cacciava. Lasciava che lo guardassi e gli camminassi attorno. Non avevo il coraggio di rubare ciò che mangiava, in realtà non me ne dava nemmeno il tempo. Lo divorava ad una velocità strabiliante, come se stesse compiendo un furto al supermercato e dovesse proteggersi da occhi indiscreti. Non avrei potuto biasimarlo, però. Si teneva stretto quel poco che aveva, la sua coperta e la sua stessa vita.
Durante il giorno Senza Nome se la passava tutto il tempo a dormire, si copriva gli occhi con il berretto sgangherato e a volte se lo tirava su per dare uno sguardo alla strada. Qualche volta, da lì, passava un treno. Andava davvero veloce, ma a lui non era mai passata l’idea di prenderlo e andare in cerca di un’altra casa.  Stava bene dove stava. Nessuno lo disturbava, nessuno lo chiamava, nessuno aveva bisogno di lui.
Qualcuno che invece il treno andava a prenderlo talvolta passava di lì, lo guardava con disprezzo aggiustando il cappotto,  poi andava.  Qualche giovanotto lo scrutava da sotto gli occhiali da sole, uno sguardo fugace e timoroso, poi si tirava dritto.  Senza Nome invece non guardava le persone ma solo il cassone della spazzatura sempre pieno di nuove cose. Una volta al giorno ripeteva il rito: si alzava da terra e camminava lentamente verso il baule magico dal quale avrebbe estratto qualcosa da mangiare.  Poi ritornava sotto le coperte, divorava il bottino e andava di nuovo a dormire. Qualche volta piangeva, mormorava qualcosa sotto la lunga barba grigia, stringeva le labbra sottili e le rughe del viso si marcavano di più mentre i riccioli gli pendevano dalla testa e si imbruttivano giorno dopo giorno. Quella sera Senza Nome non aveva mangiato nulla, arrivavo da poco ma avevo già capito che andava peggio di sempre. Lo capivo dai suoi lamenti, dai grugniti sofferenti. Stava ancora sotto le sue adorate coperte color senape, in posizione fetale, immobile.   Mi muovevo rapidamente avanti e indietro a cercare qualcosa da mangiare per lui e per me, il minimo indispensabile. Poi sentii un botto. Mi girai di scatto e vidi del fuoco provenire dal fondo della strada, lì dove avevo visto mariti e mogliettine guardare allegramente le vetrine ed entrare in succulenti ristoranti e gustare un po’ di vino e a riscaldare il palato con spezie e piatti saporiti. Decisi di fare una corsa, abbandonavo il mio amico per andare a vedere cosa stava succedendo. Cercavo di schivare il vento e il ghiaccio che aveva con sé, mi pizzicava la faccia e non riuscivo a smettere di correre. Sentivo spari, sentivo urla, avevo bisogno di sapere anche se avevo paura. Vedevo uomini a terra, insanguinati, fatti fuori da forsennati.  Riuscivo a vedere da vicino gli occhi immobili e sbarrati, i corpi senz’anima e le braccia che coprivano i volti sfigurati. Le grida delle donne mi riempievano la testa e i pianti incessanti mi confondevano la vista. Vedevo gente vestita di nero con delle armi in mano, scappava chissà dove e non riuscivo a seguirli con lo sguardo. Correvo stravolto ancora su quelle mattonelle tinte di rosso, le luci illuminavano appena i visi dei corpi anonimi e svuotati di ogni sentimento. Mi allontanavo da quel posto dove si  stava consumando l’Inferno e la disperazione più assoluta.  Correvo da Senza Nome, doveva aver sentito per forza gli spari. Ero l’unico al quale importava di lui.  La strada del ritorno stavolta era infinita, le luci delle vetrine distrutte erano spente per sempre, e con le zampe inciampavo ora su un sasso ora su un altro.  Arrivavo trafelato dal mio amico. Era ancora sotto le coperte più sporche del solito, sempre lì, nella sua scomoda cuccia. Non avevo ancora osato avvicinarmi a lui, lo guardavo ancora da lontano. Aveva smesso di lamentarsi, non c’erano più i suoi grugniti. I piedi neri gli uscivano da fuori le coperte, stavolta non li muoveva per il freddo, li teneva immobili, in posa.  Forse dormiva. Le urla che provenivano dal fondo della strada erano sommerse  dalle sirene delle ambulanze che si sovrapponevano in un brusìo simile a quello delle cicale in estate, un unico rumore che contiene tante voci.  Intanto mi ero avvicinato alla coperta di Senza Nome, per la prima volta, cercavo di dormire con lui e coprivo il mio dolore al suo stesso modo. Avevo lo sguardo puntato sul fondo della strada, erano passate alcune ore, le grida adesso erano diventati lievi lamenti, sempre più lontani.  Era l’alba, non passava nessun treno stavolta. Senza Nome non si voleva proprio alzare oggi, era rimasto rannicchiato sotto le sue coperte, sempre lì, a rivivere la sua infanzia primordiale. Le nuvole in cielo si affollavano come le voci di donne impazzite e delle sirene delle ambulanze che avevo sentito ieri sera.  La luce era gialla, sbiadita, avrebbe piovuto di lì a poco. Decisi di rannicchiarmi vicino Senza Nome, volevo vederlo in viso, volevo controllare che stesse bene.   Aveva gli occhi sbarrati, il bianco della pupilla era come evaporato, il viso era pallido, le bocca semi aperta, le labbra viola, nessun respiro.  Avevo perso il mio amico e non me ne ero accorto. In realtà nessuno si era mai accorto di lui senza prima disprezzarlo, e quando si nascondeva sotto le coperte non si notava nemmeno. Sembrava solo un cumulo di spazzatura. A nessuno importa dei cumuli di spazzatura. Io e Senza Nome avevamo in comune una sola condanna, l’invisibilità. Lui si nascondeva sotto le sue coperte, io invece nelle fognature, dentro i vasi, sotto le aiuole, le crepe, e le coperte del mio amico. L’unica differenza è che chi vedeva il mio amico in fondo se ne fregava, per quanto mi riguarda, invece, bastava che qualcuno scorgesse la mia coda per scatenare il panico. Hanno provato ad ammazzarmi in tanti modi, gli illusi. La vita di un topo è difficile e sembra dare sempre troppi problemi. Quella di Senza Nome invece non disturbava nessuno, non  ho mai visto qualcuno provare ad avvelenarlo o dargli fuoco. Il cibo se lo prendeva da solo, come me, ma lui era più bravo a non farsi scoprire. Ora invece lo guardo negli occhi per la prima volta, sembra fissarmi, ma non mi vede più.

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One Thought to “La follia dell’uomo vista con altri occhi”

  1. Giuseppe Guarino

    Stupendo racconto. Scritto molto bene, con un finale davvero sorprendente. Complimenti all’autrice.

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