La profezia di Leonardo Sciascia

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Leonardo SciasciaDi Valter Vecellio

E’ pieno di “cose” questo agile e apparentemente esile “La profezia di Sciascia”, di Nico Perrone (Archinto editore, pagg.105, 14 euro). In realtà, l’aspetto, il formato non deve trarre in inganno: non è affatto esile, tutt’altro; è robusto e, appunto, pieno di “cose”, “argomenti”: idee, opinioni che non saranno (anzi, sicuramente, dati i tempi che si vivono) maggioritarie e dominanti; ma sono il lievito di quel pensiero destinato a durare; e alla fine, “vincere”. E’ un baedeker da compulsare, dopo averlo letto, scegliendo magari un brano a caso, con la certezza che un “caso” non sarà mai, se l’occhio indugerà in quel particolare brano: che le coincidenze hanno una loro logica, pur sfuggente, a volte.
“La profezia di Sciascia” è il risultato di una lunga conversazione che si è protratta in un paio di giorni, a Roma. Come è andata lo racconta lo stesso Perrone: “La conversazione, concordata espressamente per la pubblicazione, si svolge durante un venerdì e un sabato dell’autunno del 1978 (24 e 25 novembre), in più riprese: durante due intere giornate trascorse a Roma fra la hall dell’Hotel Mediterraneo, lungo le strade del centro, nella sala di una mostra figurativa di Mino Maccari, durante la cena al ristorante da Alfredo, prendendo un drink al ristorante Massimo d’Azeglio. A tavola è sempre presente la moglie dello scrittore Maria Andronico, insieme ad altri amici. Il testo della conversazione viene da me scrupolosamente annotato mentre parliamo”.
Non c’è ragione di dubitare dello scrupolo di Perrone; e certamente avrà perfettamente colto e reso senso e significato di quella lunga e bella conversazione in due tempi; ma come rendere, nella forma scritta e per la lettura, le pause, i silenzi, l’incedere, il guizzo degli occhi, i sorrisi o i semplici movimenti di testa e mani? Racconta lo stesso Sciascia, in altre, diverse occasioni, di un Socrate che, seduto e la gamba accavallata, a un certo punto sfiora e accarezza la caviglia, lì nel punto dove ancora si scorge la pressura della catena con cui era stato tenuto prigioniero; e quel gesto innocuo, e forse perfino meccanico, Sciascia lo cataloga tra “gli argomenti veri”… Questo solo per dire che dobbiamo immaginarla, non solo leggerla, quella lunga conversazione; e “vedere”, oltre che leggere, quei comportamenti, quei gesti che sono “argomenti veri”: sappiamo di una mostra di Maccari, geniale artista di cui Sciascia era grande ammiratore; e ci sarà stato, magari, anche un peregrinare paziente per librerie antiquarie, alla ricerca di preziosi libretti di autori siciliani o di ritratti di scrittori…A passeggiare con Sciascia poteva anche capitare di finire nello studio di artisti amici come Bruno Caruso o Renato Guttuso, prima che scegliesse il partito sacrificando l’amicizia…Li si può immaginare, cena e drink: un piccolo cenacolo come quelli in un altro ristorante frequentato da Sciascia, quel “Fortunato” al Pantheon dove d’abitudine si trovavano Francesco Rosi e la moglie, Antonello Trombadori, Lino Iannuzzi…Ci fosse stata, a filmarli una nascosta telecamera (nascosta nel senso di “a insaputa” degli stessi protagonisti), ne avremo ora un documento eccezionale: cultura, amicizia, impegno… Tocca invece solo fantasticarla, la situazione di quella lunga conversazione, con la consapevolezza che la realtà supera sicuramente le nostre capacità evocative…
Lunga conversazione, si diceva; preceduta da un saggio, di Perrone, che si chiude con una riflessione amara, nel capitoletto “A futura memoria”; ci si tornerà. Ma qui, subito: quanto è fondata la constatazione “…E’ segnato nel profondo da tutto quello che gli è caduto addosso nell’estate 1988…”.
Ne posso dare diretta conferma, ricavata dalle parole di Annamaria Sciascia, una delle due figlie dello scrittore, che intervisto per il TG2 in occasione del 25esimo anniversario della morte. Qual è stata la polemica che vi ha ferito di più?, chiedo. “L’ultima, quella sui professionisti dell’antimafia”, risponde Annamaria, con calma rassegnazione. “Una polemica che continua a tormentarci, non si è mai sopita, non finisce mai perché c’è sempre qualcuno che la ritira fuori, strumentalmente; e siccome i familiari non possono intervenire per difendere chi non è più in condizione di farlo, ecco che questo sono il dolore e il dispiacere più grande. Vedere la malafede e non poter fare nulla. Nella lettera che mio padre ci lasciò prima di morire lui ci raccomandava di non perdere tempo a difendere la sua memoria; e quindi quando vedo mio marito o i miei figli agitati per queste polemiche dico loro di tenere conto di quanto ci ha raccomandato, che è tempo perso, perché un familiare che difende è un po’ patetico. Però fa male, questa è una polemica che gli ha avvelenato sicuramente gli ultimi anni, perché lo hanno accusato in modo volgare, meschino.. Ammesso che avesse torto, ma come si potevano dire le cose che gli sono state dette. Ancora oggi procura amarezza e non riesco a capacitarmene; e poi ora vedere quelle stesse persone che cercano di spiegare, di rettificare, di dire che insomma no, che…È stato un episodio di grande inciviltà che mio padre non meritava assolutamente”.
Cercano di spiegare, rettificare…Quando lo fanno, che sono tanti che non lo fanno, e anzi, orgogliosamente rivendicano quel loro belluino reagire a un dato di fatto che facilmente si può scorgere “oggi”, ma che con buona volontà era visibile anche “ieri”; a patto, ovviamente, di averne, di volontà, e buona. Merce rara ora; merce rara allora.
Non tutti, ben inteso. Qui si apre una parentesi: in un libro molto onesto di un dirigente storico della sinistra e di quel che fu il PCI, parlo di Emanuele Macaluso (e il libro è: “Leonardo Sciascia e i comunisti”, Feltrinelli, pagg.157, 14 euro), anche quella polemica viene trattata e criticamente ripercorsa. Macaluso fa i conti con se stesso, con quello che fu il suo partito, con la sinistra; respinge gli assiomi arroganti quanto infondati piovuti sul capo di Sciascia da un po’ tutte le parti (ma da Eugenio Scalfari e il Partito di “Repubblica” in particolare), e riconosce: “…Sciascia, semmai, fu tra i primi ad agire, con i mezzi propri dello scrittore, per individuare e colpire convivenze, complicità e viltà. L’opera di demolizione di cui parlano Scalfari, Fava e altri culminò con l’aggressione da parte di Orlando e del suo entourage a Falcone, che aveva ben capito come stessero le cose in alcuni ambienti della sinistra antimafiosa…”. Quelle pagine (i capitoli non sono numerati), che vanno dalla 76 alla 83) sono tra le più commoventi e lucide; ci restituiscono non solo lo Sciascia che abbiamo conosciuto: sono anche il segno dell’autentica amicizia che legò Sciascia a Macaluso anche quando non coltivavano la medesima opinione, e anzi si trovavano su fronti opposti, anzi: soprattutto in quelle occasioni.
Per tornare a Perrone: parla di tante cose, con Sciascia; il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, per esempio: e quello che accade in quei 55 giorni, un qualcosa di tremendo, per la vita delle istituzioni, letteralmente sequestrate, le Camere non vengono riunite neppure un minuto: “Credo che a un certo punto tutti, inconsciamente, lo volessero morto. Tutti quelli che stavano per la fermezza dello Stato” (pag.74); ma anche di mafia, del PCI, del collasso dei partiti: già visibile allora (siamo nel 1978): “…La gente non si riconosce più nei partiti. E perché dovrebbe riconoscersi? Questa difesa di cose morte! Il Parlamento, per esempio. Che cos’è? Mi dicono che è sempre vuoto…” (pag.72).
Ma qui, non è propriamente profezia, piuttosto pre/veggenza. Forse, chissà, anche se molte delle cose dette, sostenute, scritte da Sciascia hanno il sapore della profezia, si potrebbe parlare di capacità di cogliere il segno, il sintomo: il saper appunto “vedere”; che tale era il pregio e la capacità di Sciascia, e ricavarne il giusto senso. Cosa che comporta spesso di non venire compresi, per stupidità, spesso; per calcolo doloso e interesse, anche: che certe verità possono far male. Lingua che batte dove il dente più duole.
Cosa si ricava dalla lettura di questa “conversazione”: in sostanza che tocca ancora, come sempre, fare i conti con quello che Vitaliano Brancati chiama “l’eterno fascismo italico”; la denuncia di Ignazio Silone che risale, pensate!, al maggio del 1951, quando su “Volontà” scrive: “…Il fascismo è crollato. Ma si può seriamente dire che siano immuni dai pregiudizi del fascismo coloro che s’affermano campioni della democrazia? Il fascismo sopravvive sotto altre etichette, e la nostra lotta contro di esso non può cessare…”.
Il libro di Perrone ha una preziosa appendice: quattro lettere di Sciascia; e un passaggio della quarta, in particolare: “…le cose vanno per come era prevedibile. E si può credere che l’anello giudiziario della catena abbia avuto un certo cedimento, ma non è così. La forma dell’intransigenza conteneva già la sostanza della disgregazione. Ma questo sarà compito dello storico l’accertarlo…”.
E a proposito di accertamenti storici da fare, o verificare, nella terza, in risposta a Perrone per un suo lavoro sul caso di Enrico Mattei: “…l’opinione che ancora ho è che De Mauro sia morto per quel che appunto sulla morte di Mattei non sapeva di sapere…”.
Veniamo ora all’amara riflessione nel saggio di Perrone che introduce la conversazione: si parla di “A futura memoria”, il libro (è Sciascia che parla), “che raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia; e sulla mafia…”. Ha ragione Perrone a sottolineare l’importanza di quel “certi”; e annota: “Alla ‘futura memoria’ lo scrittore affida le pagine che maggiormente hanno pesato su di lui”. Sono articoli apparsi su vari giornali in un periodo che va dall’ottobre 1979 all’11 novembre 1988. Tra quei trentun articoli, anche quello pubblicato il 10 gennaio 1987 sul “Corriere della Sera”, relativo al professionismo di certa antimafia; e i successivi di replica alle polemiche che si vollero scatenare: sul “Corriere della Sera” del 14 gennaio; su “l’Espresso” del 25 gennaio; sul “Corriere della Sera” del 26 gennaio; ma conviene leggere anche quello pubblicato su “La Stampa” del 6 agosto 1987, magari in comparazione con il già citato capitolo del libro di Macaluso.
La campagna scatenata contro Sciascia dopo la pubblicazione dell’articolo del 10 gennaio 1987, annota Perrone: “…produrrà anche un risultato postumo: quello di oscurare Sciascia per più di vent’anni. Alle sue opere, alle sue parole mai più verrà riconosciuto il vero valore”. Vero, caro Perrone; ma vero anche che conviene, per fortuna, mai dire mai.

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