Taormina Film Festival, termina oggi la 60ª Edizione

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TaofestDi Elena Atalmi

Taormina, sospesa, il rosa intenso dei fiori sui muri, con alle spalle colline e mare tremulo in fronte. Star del cinema nazionale e internazionale in jeans e maglietta si mescolano qui a spose locali e modelle pagliettate, i vestiti delle invitate più colorati che quelli delle africane con tacchi degni di un’apparizione in Sex and the City. Non capisco più per chi o cosa si festeggia, chi è il divo e che ci faccio io qui. Vuoi suggestionata dai Mondiali, mi sembra d’essere in Brasile, per la luce, i 40 gradi all’ombra, l’umore e la bella gente. Invece questa è Taormina, 14 giugno, dove si apre la 60ª edizione del Taormina Film Festival, che quest’anno ha affrontato non poche difficoltà economiche per permetterci di proseguire un ormai storico appuntamento tra cinefili e divi dello star system. Giovani in crisi ormonale, addetti stampa acidi e vecchi habitué formano un crocchio bizzarro e variegato davanti al Palacongressi, e possono risultare poetici a uno sguardo vagamente neorealista e trasognato.

In scaletta si comincia con la presentazione di un film molto atteso per tutti coloro che, grandi e grossi, si ostinano ad opporsi allo scorrere del tempo: “Dragon Trainer 2”. Informatici curiosi, amanti del fantasy, giovani alternativi che si professano orgogliosamente outsider sono i fans della saga, che si tappano gli occhi per non ‘spoilerarsi’ niente prima di sera. Stretti alla coperta di Linus dell’infanzia, un senso d’inquietudine e titubanza nel guardarsi attorno e allo specchio, si esaltano con personaggi unidimensionali, mentori di banalità, amandone la solita trasformazione perdente/vincente, il circondario di compagni buffi e macchiettisti. Un concentrato di realtà ridotta ai minimi termini, tragicomico e in cerca di trasportare le paure quotidiane, spesso più nere e di difficile soluzione, d’un adolescente reale, in un mondo colorato e dove tutto si risolve, e questo rincuora chi dalla realtà vuole scappare o continuare a vederla infondo come un semplice marchingegno infantile. Di interessante v’è la sfida tecnica nel campo dell’animazione digitale, che però coinvolge solo gli addetti ai lavori. Rispetto al primo film è stato chiamato in causa un direttore della fotografia, quindi con la positiva volontà di restituire dignità al genere d’animazione. Penso che fare questo film sia stato molto divertente, specie per un adulto che è fuori dal gioco, ma per il pubblico a cui è indirizzato, non più quello dei bambini ma degli adolescenti senza risposte, no. Credo infatti che il limite e la forza di “Dragon Trainer 2”, proiettato la sera al Teatro Greco, siano situazioni e personaggi noti su cui da un bel po’ di anni l’industria americana viaggia, pur con qualche eccezione, coccolando il suo pubblico di bocca buona, innocuo come un bimbo ingozzatosi di latte. E’ soprattutto lo spirito allegro, gioviale, disneyano, a far breccia nel cuore dei giovani, che possa dare a tutti l’illusione di non dover crescere mai, o peggio che crescere infondo sia una cosa semplice.

Dopo, tra gli applausi ed i sorrisi, entra Claudia Cardinale. Si definisce timida e respinge le lusinghe perché afferma di essere capitata bene, in un’epoca d’oro per i finanziamenti a favore del cinema e i grandi registi, da cui è stata sapientemente guidata: è bastato mostrasse il viso alla telecamera e quegli occhi grandi a farla attrice. Gli disse un regista un giorno che doveva recitare fin con la coda dell’occhio, bucare lo schermo, spiazzare, da qualunque angolazione la riprendessero, i suoi occhi attenti non dovevano mai perdere d’intensità. Un’attrice simbolo per l’Italia, che di lei e dei suoi occhi s’è innamorata fin dagli anni Sessanta. Quest’anno il festival ha aperto una sezione in suo onore, “Omaggio a Claudia Cardinale” : ogni sera alle 20.00 una proiezione di film meno noti al grande pubblico, interpretati e spesso finanziati dall’attrice.

Dopo la sua apparizione viene proiettato il primo film della giornata: il mediometraggio diretto da Brando De Sica “La donna giusta”. Laureato alla USC (University of Southern California), Brando ha messo in pratica tutti gli insegnamenti dei celebri professori campioni d’incassi di cui è stato alunno (uno fra tutti, citato nei ringraziamenti, David Lynch). Senza dubbio è un regista esperto, anche se agli esordi, ottimo conoscitore d’una biblioteca di film storici che interesse personale e background familiare l’avranno portato a visionare. Al di là dei paragoni, “La donna giusta” è un prodotto interessante, con ottima fotografia, suono (campionato dallo stesso Lynch, vorrei ben dire!), e un bravo attore protagonista, Ascanio Balbo. Soprattutto ho apprezzato l’approccio del regista al genere horror: un horror di tensione, con molto poco splatter, e in definitiva poco horror, per come lo intendiamo noi oggi. Molti si potranno essere annoiati, altri lo elogeranno per l’eleganza e la classicità nello sviluppo narrativo sulla linea dei grandi maestri che il genere l’hanno inventato senza strafare. Un horror sulla sottile linea della follia tutta umana e delle inquietudini, sane o borderline, riflessivo e che intrighi, giocando di suspense, anziché terrorizzare. Interessanti i due protagonisti un po’ anomali e fuori dal coro: Valentino per i suoi evidenti disturbi e nevrosi, Silvia per il suo mutismo e timidezza, entrambi preda di voraci solitudini. Valentino, il nome simpaticamente ispirato dal famoso stilista, e Silvia dalla Silvia di Leopardi. L’amore per la musica classica è quasi un loop, un sogno che diventa incubo, che riporta al trauma irrisolto, all’origine del male, perenne, che divora Valentino, che l’uccide consumandolo con l’ossessione. Il rapporto con l’altro sesso, temuto, invocato, intollerante, che si mira a manipolare e correggere, o di contro a lasciarsi conquistare dal suo magnetismo fatale, è matrice del soggetto. Il tizio sfuggente e inquietante che vedi muoversi sullo schermo e tieni d’occhio con sospetto diventa quasi degno di pietà e comincia l’introspezione psicologica, il nostro vagheggiare su quale possano essere i suoi pensieri, e sottile s’infila il desiderio di conoscerlo meglio, di comprenderlo. Stimolanti le interpretazioni che suscita, la sua vita, reale e immaginaria, il lavorio della mente, i suoi tormenti, e quello che è stato, ciò che ha realmente vissuto e che non sappiamo, il suo passato. In tutto il film si ripresenta il binomio finzione/realtà, che si configura come tema sensibile del regista. Apre il film una citazione importante: “L’immagine inventata ha una sua verità” di Giordano Bruno. E’ una relazione di 10 anni andata male e la conseguente riflessione sull’immagine ideale che ci si costruisce quando si è innamorati ad ispirare il regista. Da qui la riflessione si allarga al mondo dell’individuo e la sua realtà soggettiva, cioè il nostro sentire e percepire aldilà del dato reale, che è intuito quando si riferisce alla realtà e diventa percezione vaga e stravolta dalla fantasia quando non si riferisce a niente, ma comunque agisce e ci fa agire. Spesso dopo un film horror, tanto trambusto, urla, brivido, si rimane come ubriachi, storditi a guardare con occhio schizzato e apatico, poiché si è già viaggiato nei mondi più strani e impensati dell’immaginazione, vagato per le fantasie colorate e terribili altrui. Resta la sensazione che in fondo la vita è una noia rispetto alle esasperazioni fantasiose della nostra mente. L’uomo vive al limite tra l’orribile e il sublime ma la vita è in realtà molto più portata all’equilibrio di quanto non siamo noi.

Il nome dei De Sica, portato alla notorietà dal grande Vittorio, maestro e inventore del neorealismo, è stato presente in sala con Christian De Sica, “comicarolo”, come lui stesso si definisce, e Brando De Sica, tornato alla regia come il nonno, questa volta in veste horror, ma chiarisce: “Non voglio fare solo horror, diventare un regista di genere. Magari ora ho paura ed esorcizzo così, ma voglio spaziare, ho ancora da crescere”. Padre e figlio hanno tenuto una piacevole e rilassata conversazione, in cui si sono espressi sulle tematiche sollevate dal pubblico, quali quella dei doppiatori italiani da qualche tempo in sciopero, la fuga di cervelli, e gli ingredienti per fare d’un semplice uomo un uomo di spettacolo. “Lo spettacolo” dice Christian “si fa in tanti, non esiste il leader”.  Christian De Sica s’è mostrato uomo consapevole dei propri limiti e dice che non ama la volgarità ma la compagnia della gente, ed anche se nei suoi film la volgarità è presente questa è fatta senza troppo pensare, senza malizia e quasi con ingenuità. In fondo si vuol solo far ridere, e non si può chiedere ai comici di saper essere anche ironici.

Il secondo film presentato è stato “Capitano Ultimo, le ali del falco”, che sarà prossimamente una fiction tv con Raoul Bova nel ruolo di Ultimo, e di cui per adesso è stato mostrato un documentario/intervista, riguardo non tanto la persona di Ultimo in sé (Sergio di Caprio, il carabiniere che arrestò Riina), quanto il suo grande lavoro alla casa famiglia “Ultimo” e la realtà lì affrontata. “Capitano Ultimo” ci mostra dove il regista è andato a documentarsi, luoghi e persone legati all’attività sociale della casa famiglia; dall’altro i commenti di Raoul Bova, che sulla persona si interroga e cerca di tirar fuori l’essenza. La casa famiglia raccoglie ragazzi da famiglie disagiate e dal carcere, ragazzi disabili, che cercano di sperimentare altro, di ritrovare una positività nel fare, nel contatto con la natura e gli animali, nella semplicità della vita, che sia vera e libera. D’ispirazione è la figura di San Francesco, la religiosità da lui predicata, ovvero quella del ritorno alla strada e alla povertà. E Ultimo alla strada c’è affezionato, è affezionato alla gente e alle sue ferite. Pensa che il futuro non sia scritto e che ci sia speranza per tutti, che lo Stato siamo noi quando aiutiamo il prossimo e facciamo comunità, quando ci avviciniamo alla strada e cerchiamo di cambiarla, perché per Ultimo sembra che lo Stato sia un sentimento più che un’istituzione. Diffida del potere e crede solo a ciò che vede e costruisce concretamente ed è aperto  nei confronti degli stranieri, che lavorano e cucinano mettendo a disposizione ognuno la sua abilità e lanciando questo messaggio ai ragazzi: “se so fare qualcosa di utile, ho una scelta”. Bova certamente ha grande stima di Ultimo e sente il bisogno, come dice lui, di fare qualcosa per gli altri, in questo momento della sua vita. Il personaggio, dice, è difficile da rendere, severo ma protettivo, per lui addirittura simbolo stesso di giustizia. Certo, se la metta così, interpretare la giustizia in persona non sarà facile! Bova si pone sempre obiettivi troppo alti. Il grande problema  del documentario proposto è la retorica martellante, scadente, ripescata da non so quale vecchia scatola di ricordi, se quella del nonno o del bisnonno, che riempie ogni battuta, ogni fotogramma, d’una patina di falsità e perbenismo, rendendo la visione una tortura insopportabile. Quello che potrebbe essere stato l’entusiasmo sincero d’uno uomo diventa degno di sospetto perché vuole essere mostrato più grande di quello che è e non c’è dato di conoscerlo realmente. E’ un documentario artefatto: la camera non filma, manipola. Eroico e superlativo, Ultimo non sembra là per parlarci ma per fare comizi. E’ evidente dalla sottolineatura esasperante delle parole con la grafica che le scolpisce sullo schermo come su d’una pietra miliare, e dal ricorso alle solite, grottesche musiche da Cavalieri Templari in corsa verso il Santo Graal. Il tema della solidarietà merita rispetto, ma un film è un’altra cosa. Una presentazione deve essere capace di coinvolgere, e invece ha fatto crollare di sonno chi era ad assistere, che batteva le mani a ogni interruzione d’immagine nella speranza di vedere scritta la parola fine. Poi però Bova sorride, e le fans ragazzine, come le mamme, sono contente e gli perdonano tutto.

Isabella-Ferrari-FacebookEntra al Palacongressi scortata dalle guardie del corpo, generando un trambusto maggiore che i suoi colleghi, Isabella Ferrari. Con spessi occhiali da sole a coprirle i begli occhi, jeans e scarpe alte e rosse, un tocco chic che fa pendant col rossetto, per una diva dalla classicità sobria e misurata, i capelli legati in un codino che stuzzica con le dita durante tutta l’intervista. Incarna lo stereotipo femminile, la donna come se la figura l’uomo, docile e gentile, ma nel contempo distaccata al punto da rendersi inaccessibile. Del suo rapporto con l’universo maschile la Ferrari ricorda: “Ho subito molto la prepotenza degli uomini”. La sua carta vincente è una certa insicurezza primigenia, una fragilità interiore, che le rendono possibili, essendone di molto consapevole, emozionanti performance in cui senza vergogna tira fuori  -spesso attraverso lo specchio di una telecamera- quelle che sono le sue emozioni. Non creerà un personaggio, ma ci dona se stessa, il suo personaggio, la sua vita, che va in parallelo con le riprese dei numerosi film e spettacoli. Quasi come su un album di foto traccia il percorso, ricorda i punti chiave, le svolte, segnala le salite e le discese. Dall’esordio per caso al quasi parto durante le riprese di Distretto di Polizia, Isabella alla settima arte non ha risparmiato nulla, avendo il pregio di sapere essere spudorata ad hoc, anche nell’approcciarsi al nudo, perché dice: “se sei un’attrice seria non puoi avere falsi pudori, se credi in un film e nel suo regista”. Con i registi in effetti la Ferrari ha sempre avuto un rapporto particolare, sia come attrice che come donna. Dopo una relazione durata anni con Francesco Nuti, che l’ha diretta in “Willy Signori e vengo da lontano”, ha poi sposato Renato De Maria. Un argomento su cui ha voglia di discutere è il connubio attore-regista: “l’attore è vittima e artefice dello sguardo del regista”. La Ferrari confessa di seguire molto lo sguardo del regista, nel senso più letterale possibile: basta uno sguardo a farle intendere cosa vuole e cosa ricercare nel meraviglioso lavorio interiore dell’attore. Le parole più interessanti le ha spese proprio per questo: cos’è quel mistero che si crea e si subisce, quando si recita, quando l’emozione fluisce in parole o sguardi e si mostra, vera, indefinita e nuda, affinché  la gente vibri della più grande empatia? Non lo sa neanche lei forse, o comunque non vuole dircelo: è un mistero grande, intimo, sul quale c’è da mostrare riserbo, sul mistero dell’anima più che su quello del corpo. Se conosci le battute a memoria puoi permetterti il lusso di generare la magia fino a dimenticare le parole, e recitare i non detti. Il più grande consiglio che un regista le abbia mai dato: “Parti da te stessa”. Così ha mantenuto il suo accento, il modo soffiato di parlare, i suoi aggettivi “scivolosi”, come li definisce il giornalista e critico che la sta intervistando, Mario Sesti. Ma il suo recitare non è uguale a quello del collega Toni Servillo che dichiara: “Sono soddisfatto di come ho recitato quando mi rivedo e penso: e questo chi è?”. La Ferrari scuote la testa, incerta: “No.. no per me è diverso, io mi riconosco, e non voglio mai riguardami in tv, scappo, scappo sempre, scapperei anche adesso”. E ride. Amante “selvaggia” (come il personaggio dei Vanzina che la fece conoscere al grande pubblico) della libertà, la Ferrari dice: “E’ un tale divertimento per me stare sul set che sono disposta anche a sbagliare. Tutto succede solo davanti alla macchina da presa, e mi piace moltissimo essere là”. Donna fortunata, come la Cardinale, nell’aver incontrato dei registi che hanno colto in lei, ragazza normale, quello che non sapeva di avere.

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