Trattativa Stato-mafia senza stagione: dalla strage di Ciaculli a oggi

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Siamo alle solite. Indagati e rinviati a giudizio 12 personaggi per ottenere certezze sulla trattativa tra stato e mafia ai tempi delle bombe targate “cosa nostra” nell’estate del ’93.

Sono trascorsi diciannove anni e siamo solo al rinvio a giudizio. Prima che il processo sarà concluso è d’obbligo aspettarsi di tutto: ridda di fughe di notizie, smentite, mezze verità, dichiarazioni in tv e quant’altro possa servire a creare confusione nell’opinione pubblica. Questo copione noi lo abbiamo già imparato a memoria. Ma chi conduce il gioco confida nella scarsa memoria dei cosiddetti adulti e nella scarsa informazione dei cosiddetti giovani.

Anche le luci del palcoscenico, puntate costantemente sulla mafia, sono bugiarde, infatti il fenomeno è stato e continua a rimanere avvolto in fetide compiacenze e criminose connivenze.

D’inquinamenti fra mafiosi e gente che sta al potere la storia dell’Italia ne è piena da sempre. Certo ora la chiamano trattativa Stato-mafia (fa più effetto), ma fa anche un torto a tutti quei servitori dello Stato che ci hanno creduto e che ci hanno lasciato la pelle.

Il procuratore aggiunto di Palermo dichiara «Siamo vicini alla verità su quella che fu la trattativa Stato-mafia all’indomani delle stragi del ’92. Ma per giungere alla completa verità, quindi per fare questo ultimo tratto di strada verso la meta, serve l’impegno della politica… c’è in atto anche un lavoro importante della Commissione parlamentare Antimafia, ma sono due gli obiettivi da raggiungere: combattere l’omertà dei capi mafia sul periodo stragista e combattere la reticenza sulla trattativa da parte di uomini delle Istituzioni che non hanno raccontato tutto quello che successe in quel triste periodo della storia italiana».

Ci sembra un errore di valutazione restringere la trattativa al periodo stragista. Questa strategia è connaturale nella mafia e se no sarebbe solo delinquenza.

Pensate che sia una bugia o una banalità se diciamo che tutti i governi di tutte le Nazioni hanno scheletri negli armadi del Palazzo? Certo non dovrebbe essere così in un Paese che si regge sullo “stato di diritto”, ma se non vogliamo essere ipocriti, il fatto vero è che a fianco della democrazia c’e sempre una ragion di Stato.

Detto questo, qui si tratta di mafia; e con la mafia non si fanno trattative, la si combatte e basta. Già! E chi la dovrebbe combattere? I referenti che la mafia stessa ha infiltrato nei posti di potere?

Occorre abbattere il muro di gomma della reticenza istituzionale. Se la politica di oggi vuole recuperare un po’ di credibilità in questo campo deve dimostrare di rompere col passato e con quei rappresentanti istituzionali che non hanno mai raccontato la verità.

Solo per fare un esempio, sapete quanti parlamentari sono stati e sono tutt’oggi indagati per favoreggiamento o concorso esterno in associazione mafiosa?

Ma non è sufficiente, perché non si tratta solo di voti in cambio di favoritismi, compiacenze e impunità. Si tratta di cose di peso maggiore e cioè di una convergenza mortale degli interessi della mafia con gli interessi di chi tira le fila del potere. Tali interessi possono convergere su accordi d’affari o peggio sulla necessità di eliminare uno “scomodo personaggio”. Quando lo Stato abbandona uno dei suoi uomini che si è spinto troppo oltre, quello è il segnale che dà il via libera affinché la “Cosa nostra” rimetta le cose in ordine. Meglio se in Sicilia.

Tradizionalmente la figura del mafioso è stata collegata alle condizioni di arretratezza dell’isola.

Va da se che l’arretratezza non era della società siciliana ma dello Stato italiano che non fu abbastanza forte per operare le necessarie riforme politiche e sociali per avviare lo sviluppo democratico e capitalistico. Di conseguenza i mafiosi, che rappresentavano una classe estremamente dinamica in grado di operare una scalata sociale attraverso l’uso della forza e della violenza privata, si lanciarono nella conquista di potere e di ricchezza.

Le cosiddette trattative fra la mafia e i rappresentanti delle istituzioni infedeli partono quindi da lontano.

Il processo del 1893 per l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo, direttore generale del Banco di Sicilia, che fu sindaco di Palermo e senatore, portò a galla, forse per la prima volta, un incredibile livello di collusione fra politici e mafiosi preoccupati delle rivelazioni che il marchese avrebbe potuto fare in occasione dell’inchiesta bancaria a seguito del fallimento della Banca romana. Vi ricordate che fine fece il prefetto di Palermo, Cesare Mori, che fu il primo a mettere in grave difficoltà la mafia cittadina e del latifondo? Appena “il prefetto di ferro”cominciò a toccare i vertici del PNF e delle Forze Armate, nel ’29 Mussolini decise di metterlo a riposo nominandolo senatore del Regno e allontanandolo dalla Sicilia. Allora la mafia non ebbe la forza di eliminarlo. I vertici della mafia in quella occasione avevano piegato il capo sotto la repressione, ma nel ’43 colsero l’occasione dello sbarco degli anglo-americani in Sicilia per rialzare la testa, con gli americani che, tramite il governatore dell’AMGOT Charles Poletti, il quale non faceva mistero della loro amicizia, spesso li misero ai vertici delle amministrazioni locali siciliane, come sicuri antifascisti.

Calogero Vizzini e il suo vice, Giuseppe Genco Russo dominarono il primo dopoguerra. Nel’44, sfruttando gli agganci politici di Vizzini, Genco Russo, che era stato accusato di undici omicidi fra il ‘20 e il ‘42, molti tentati omicidi ed un incredibile numero di furti ed estorsioni, venne completamente riabilitato dalla Corte di Appello di Caltanissetta. In conseguenza di ciò acquisì la rispettabilità che gli consentì di intraprendere l’attività politica e di candidarsi nelle liste della Dc.

È questo il periodo dell’ascesa alla prima nomina a ministro degli Interni di Giulio Andreotti.

L’accordo fra la mafia siciliana e “cosa nostra americana” per la trasformazione da morfina-base a eroina nelle raffinerie di Palermo vide anche i nomi di Giuseppe Genco Russo, Salvatore Greco, Angelo La Barbera, Tano Badalamenti e Tommaso Buscetta.

In conseguenza della prima guerra di mafia, fra il ‘61 ed il ‘63, il 30 giugno 1963 un’auto-bomba abbandonata nei pressi della villa dei Greco a Ciaculli, esplodeva e uccideva cinque carabinieri e due militari dell’esercito. La dura reazione della Commissione parlamentare antimafia all’attentato portò a numerosi arresti eccellenti di capimafia in tutta la Sicilia. Questa strage provocò la prima azione antimafia da parte dello Stato nel periodo post bellico. Genco Russo venne arrestato, assieme ad altri mafiosi, il 6 febbraio 1964. Ma la sua comparsa al processo procurò grande preoccupazione fra i notabili siciliani. Nel corso del processo Genco Russo chiamò a testimoniare in suo favore eminenti personalità politiche, appartenenti al clero, banchieri, medici, avvocati e uomini d’affari. Il suo legale minacciò di rendere pubblico il telegramma inviato da 37 deputati democristiani. In difesa di Genco Russo scese anche il sottosegretario della Dc, Calogero Volpe. Genco Russo venne condannato a soli cinque anni di confino.

Nel ’68 a Catanzaro il processo a 114 incriminati per gli assassinii della guerra di mafia finì in una bolla di sapone. Tutto ricadde sulle spalle dell’anziano capo mafia Pietro Torretta condannato a 27 anni di carcere che così venne messo fuori gioco per sempre mentre gli altri imputati vennero assolti o condannati a pene minori. La mafia aveva tratto il suo insegnamento. I morti ammazzati attiravano i guai come lo sterco attirava le mosche; e in mezzo ai guai non si fanno affari.

Negli Anni ’70 molte famiglie mafiose siciliane e specialmente Tano Badalamenti, il boss di Cinisi, avevano inviato numerosi uomini negli Stati Uniti con l’incarico di dirigere il traffico di eroina e riciclare i proventi dello spaccio utilizzando numerose pizzerie aperte o rilevate da italoamericani che a New York gestivano tutto l’import e lo smercio all’ingrosso dello stupefacente per conto della famiglia Gambino.

Tra le cosche mafiose si trascorse un periodo di relativa calma dove tutti avevano il loro tornaconto. Politicamente i referenti erano gli uomini della Dc e in primo luogo Salvo Lima, uomo di Andreotti in Sicilia. In Italia invece si iniziò ad attraversare uno dei periodi più bui della nostra storia.

Quando si parla di strategia della tensione, vi è il diffuso sospetto che una parte della recente storia patria sia stata influenzata da iniziative di servizi segreti e gruppi politici, interessati alla posizione strategica italiana nello scacchiere internazionale, volte a modificarne lo schieramento dell’Italia nei confronti dei blocchi est-ovest o a condizionarne la democrazia. In questo gioco ebbe la sua parte anche Cosa nostra tirata dentro da quei personaggi che ebbero bisogno dei suoi favori per le loro attività che non esitiamo a definire delittuose ed eversive.

Questo periodo è conosciuto con il termine Anni di piombo.

Dal 25 aprile 1969, giorno in cui esplose una bomba a Milano che provocò sei feriti e che alcuni considerano come l’inizio della strategia della tensione, al 2 agosto 1980, giorno della strage alla stazione di Bologna Centrale in cui esplose un ordigno che uccise 85 persone e ne ferì oltre 200, trascorsero undici anni di terrore in cui si inseriscono, tra l’altro, la strage di Milano a piazza Fontana, il deragliamento di Gioia Tauro, la strage di Peteano, la strage della questura di Milano, la strage di Brescia a piazza della Loggia, la strage dell’Italicus. Senza ovviamente dimenticare il fatto politicamente più rilevante: il 16 marzo 1978 Aldo Moro venne rapito dalle Brigate rosse e 5 uomini della scorta vennero uccisi. Il successivo 9 maggio Aldo Moro venne ucciso.

L’analisi e la discussione su questo complesso periodo storico sono ancora aperte e, mentre per alcuni si è trattato di anni di “terrorismo di sinistra”, per altri si deve parlare di “stragismo di destra” e per altri ancora di “stragismo di stato”. Una cosa è certa che al riguardo c’è solo una verità giudiziaria parziale, confusa e spesso contraddittoria. Ma in diversi processi che riguardano questo periodo il nome di Cosa nostra ricorre frequentemente.

Nel ’70 si strinse un “patto” tra Junio Valerio Borghese è alcuni esponenti della mafia siciliana, secondo il quale alcuni sicari della mafia avrebbero dovuto uccidere il capo della polizia, Angelo Vicari colpevole d’avere istituito la Criminalpol per la caccia ai latitanti. L’esistenza di tale patto sarebbe poi stata confermata da vari pentiti di mafia, tra cui Tommaso Buscetta.

Il banchiere Michele Sindona, salutato come “salvatore della lira” da Giulio Andreotti, e nominato “uomo dell’anno” 1974 dall’ambasciatore americano in Italia, John Volpe, nell’aprile dello stesso anno, vide crollare il mercato azionario della sua banca. I profitti della Franklin Bank crollarono del 98% rispetto all’anno prima e Sindona accusò un calo di 40 milioni di dollari, iniziando a perdere la maggior parte delle banche acquisite nei 17 anni precedenti. Il crack Sindona avvenne l’8 ottobre 1974; la sua banca fu dichiarata insolvente per frode e cattiva gestione. A giocare un ruolo importante nel tentativo di Sindona di salvare le proprie banche furono le famiglie mafiose del gruppo Bontate-Spatola-Inzerillo-Gambino per conto delle quali, secondo il pentito Francesco Marino Mannoia, Sindona si occupava del riciclaggio dei proventi del traffico di eroina.

Qualche anno dopo (1977) entrò in vigore la legge N. 801 che imponeva la segretezza su «atti, documenti, notizie, attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno all’integrità dello Stato democratico».

Nel 1978 il passaggio dal contrabbando di sigarette al traffico di stupefacenti, di gran lunga più redditizio, fece scoppiare la seconda guerra di mafia. Il conflitto interno a Cosa nostra, durante il quale furono commessi oltre mille omicidi, si concluse nel 1983 circa.

Fu una guerra tra la vecchia mafia “storica” composta principalmente dalle famiglie affiliate ai Bontate, agli Inzerillo, ai Badalamenti e ai Buscetta, e quella “emergente”dei Corleonesi (i cui esponenti di spicco erano Luciano Leggio, detto Liggio, allora in carcere, Bernardo Provenzano, Totò Riina e Leoluca Bagarella), che si basavano su un vero e proprio potere militare. Questa guerra di mafia segnò l’ascesa di Totò Riina.

I Corleonesi furono un gruppo emergente estremamente feroce e violento, che per affermare il suo potere non esitò ad attuare una campagna di sterminio dei componenti delle cosche avversarie. In appena due anni (1979-1980), morirono in questa guerra che aveva trasformato Palermo e tutta la Sicilia in un vero e proprio campo di battaglia più di mille uomini e tutti appartenenti ad uno schieramento, quello dei gruppi che si erano arricchiti con la “pizza connection”. Furono compiuti anche una serie di omicidi eccellenti eliminando anche uomini dei vertici dello Stato che potevano costituire un ostacolo o minaccia. Ma guarda caso caddero uomini che a vario titolo stavano indagando non tanto sui reati di mafia degli uomini delle cosche, quanto sui passaggi finanziari di somme di denaro e sulle loro potenti protezioni “in alto”: furono uccisi Pio La Torre, Rocco Chinnici, Piersanti Mattarella, Michele Reina, Ninni Cassarà, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Cesare Terranova, Boris Giuliano, Beppe Montana, Mario Francese ed altri ancora.

Nell’82 Andreotti spinse molto affinché il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (che aveva sconfitto le BR, ma che sapeva anche altro) accettasse l’incarico propostogli di Prefetto di Palermo. In un diario, un appunto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, datato 2 aprile 1982, al presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, scriveva che la corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la famiglia politica più inquinata da contaminazioni mafiose. Venne ucciso esattamente cento giorni dopo il suo insediamento.

Si può quindi parlare di due schieramenti, uno palermitano che deteneva il potere finanziario ed economico ed uno corleonese che deteneva quello militare; vinse la guerra quest’ultimo nel 1983 circa. E perché uccidere anche gli uomini dello Stato? Quelli facevano parte della “convergenza di interessi” di cui parlavamo prima.

Ma lo Stato non poteva non reagire mettendo in campo i suoi uomini migliori e Cosa nostra, ormai assurta ad un assetto “militare” che non aveva mai avuto

Il giudice Corrado Carnevale, amico di Giulio Andreotti, si trovò a non essere più lui, il 30 gennaio 1992, a presiedere la prima sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, che aveva di fatto il monopolio del giudizio di legittimità sulle sentenze di mafia, quando l’indomani la Cassazione confermò le condanne inflitte a Palermo a tutti i principali boss di Cosa nostra dal maxi processo alla mafia siciliana. Diciannove ergastoli e oltre 2600 anni di carcere decretavano la validità delle accuse mosse dai giudici Falcone e Borsellino ai danni della cupola della allora più grande organizzazione criminale italiana. Questo convinse definitivamente Riina cercare altri referenti.

Ma Buscetta e gli altri pentiti avevano raccontato solo cose dell’organizzazione? Le indagini di Falcone e Borsellino infatti non si erano fermate ai protagonisti mafiosi.

Ed ecco nuovamente la “convergenza di interessi”. A meno di due mesi da quelle sentenze, il 12 marzo 1992, venne ucciso il potente esponente della Dc, Salvo Lima, perché ritenuto non più in grado di garantire gli interessi di Cosa nostra a Roma. Era un segnale plateale. Ovviamente chi doveva capire allora capì, ed ecco che a maggio e a luglio del 1992 si portarono a compimento le stragi di Capaci e via D’Amelio. Lo Stato di fronte alla spinta emozionale non poté non reagire duramente, ma Cosa nostra era ormai come una belva che ha sentito l’odore del sangue e ne è eccitata. Ed ecco, ad un anno esatto, gli attentati di via dei Georgofili a Firenze e di via Palestro a Milano. Poco cambia se è stata la mafia da sola o con l’aiuto di pezzi deviati dello Stato. Qualcuno doveva condurre l’ennesima trattativa. Cosa nostra non voleva più interferenze nei suoi affari e i nuovi referenti politici dovevano essere affidabili.

In una fase di transizione e di incertezza del Paese, con un sistema politico e partitico prossimo al collasso sotto i colpi dell’inchiesta Tangentopoli che fece emergere la corruzione dilagante, la mafia di Totò Riina rispose parlando con il linguaggio a lei più congeniale: la violenza e la morte.

In definitiva è all’interno della complessità del rapporto istituitosi tra il mafioso e autorità che si origina la mafia. Di conseguenza la comprensione del fenomeno rimanda a una serie di questioni aperte; in primo luogo il perché lo Stato non fu (o non volle essere) in grado di contrastare subito l’attività e l’esistenza dei Riina dei Provenzano e degli altri mafiosi.

Si può solamente ricordare un aspetto della lotta antimafia che può valere come monito per il futuro. Come già detto, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, lo Stato ha sferrato dei durissimi colpi contro la mafia. Tuttavia va detto che tale successo è stato ottenuto attraverso una legislazione d’emergenza che, in qualche misura, ha sacrificato parte dei diritti e delle garanzie di tutti i cittadini. Di conseguenza, questa legislazione non può rappresentare la “normalità” in un sistema democratico ma sarà destinata a cessare solo quando si riuscirà a rompere il legame di complicità che unisce ancora oggi i mafiosi ai politici in quanto non ci sfuggono le coincidenze di ruoli fra le coppie Andreotti-Lima e Berlusconi- Dell’Utri.

 

Corrado Rubino

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