Un ammiraglio al timone della Difesa

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Gli uomini delle Forze Armate italiane conoscono bene chi è l’ammiraglio Giampaolo Di Paola. Chi non lo ha mai sentito nominare può ovviamente leggere il suo curriculum sulla rete. Ma possiamo anticipare noi che con la sua nomina a ministro della Difesa del neonato Governo Monti ha dovuto lasciare la prestigiosa carica di presidente del Comitato militare della NATO composto dai capi di Stato Maggiore dei ventisei Paesi dell’alleanza. In passato è stato capo di Stato Maggiore della Difesa dal 10 marzo 2004, fino all’11 febbraio2008. Inquesta veste ha coordinato la pianificazione di tutte le più recenti missioni internazionali dell’Italia, dall’Iraq all’Afghanistan. Ed è stata proprio la capacità dimostrata nel gestire queste delicate operazioni “fuori area” (con senso pratico, ma anche la necessaria diplomazia) che gli è valsa quel consenso senza il quale il 26 giugno 2008 non sarebbe stato nominato presidente del Comitato militare dell’Alleanza atlantica, posto ambito da diversi altri Paesi. L’incarico dell’ammiraglio sarebbe scaduto a fine giugno 2012, ma dovrà anticipare il suo rientro per giurare davanti al Presidente Napolitano.

Da notare che Di Paola è il primo militare, in servizio attivo al momento della nomina, a ricevere un incarico governativo di primo livello come quello di Ministro della Repubblica: l’ultimo militare che ha ricevuto un incarico governativo nella storia d’Italia fu Pietro Badoglio ai tempi della monarchia, mentre l’ultima volta che un militare ha ricoperto questo incarico è stato 16 anni fa, quando il generale Domenico Corcione entrò a far parte del governo Dini, dal gennaio ’95 al maggio 1996.

Visti i suoi trascorsi è facile ipotizzare che l’ammiraglio Di Paola sarà un ministro della Difesa chiaramente filo NATO. Le sue idee sulla permanenza del nostro contingente in Afghanistan, dopo dieci anni di presenza occidentale, sono state chiare già a novembre scorso in una intervista raccolta da Il Sole 24 Ore: “…non dobbiamo nasconderci dietro una foglia di fico. Il vero sforzo in Afghanistan la comunità internazionale lo sta facendo ora. Dopo il 2001, per sette-otto anni non si sono destinate le risorse necessarie alla complessità del territorio afghano. In realtà è stato il 2009, dietro la spinta dell’allora presidente Bush, l’anno in cui è iniziato lo sforzo vero per aiutare gli afghani a tornare proprietari della loro nazione. E dopo due anni abbiamo già cominciato il processo di transizione che porterà gli afghani a essere interamente responsabili della loro sicurezza. Adesso sì abbiamo le forze sufficienti: in questo momento impegnati nella costruzione della sicurezza ci sono 306 mila afghani più 140 mila alleati, ovvero la bellezza di circa 550 uomini. Oggi un quarto della popolazione abita in zone in cui la sicurezza è in mano di afghani e a metà novembre inizierà il passaggio di una seconda tranche di distretti che al completamento porterà al 50% i cittadini sotto il controllo della sicurezza di connazionali.”

Al vertice NATO di Lisbona è stato fissato l’obiettivo della fine del 2014 per riportare il territorio sotto il controllo delle forze di sicurezza afghane. Ma Di Paola si dice certo che “la comunità internazionale dirà a Bonn al vertice di dicembre e a Chicago nel summit di maggio che l’impegno in forma diversa dovrà continuare perché un Paese come l’Afghanistam, dopo tanti anni di guerre interne ed esterne, non si rimette in piedi in 10 né in 15 anni. La comunità deve dare l’assicurazione che l’impegno continuerà al di là della fase di transizione. E istituzioni come Onu, Ue, Banca Mondiale, Fmi dovranno saper fornire gli strumenti necessari ad aiutare gli afghani.”

Ovviamente il neo ministro non si esprimerà né sulla crisi in Siria né su un possibile intervento in Iran. In futuro sentiremo meno discorsi in politichese e meno aria fritta da parte del ministro della Difesa in quanto, da militare d’alto rango quale egli è, Di Paola si esprime con termini propri e puntuali in merito alla sicurezza internazionale come ad esempio quando parla di “smart defense”, “difesa intelligente”: “Significa – dice l’ammiraglio – lavorare insieme, rendersi conto che ciascuno di noi in questo momento di grandi difficoltà economiche non è più in grado, ammesso che lo fosse prima, di potere gestir da solo la sua sicurezza. Bisogna entrare nell’ordine di idee che certe capacità vanno utilizzate insieme. Perciò la smart defense è un atto politico. Può forse apparire ironico dirlo ora, ma i ministri, come non hanno avuto paura di abbandonare la sovranità finanziaria per accedere all’euro, così non devono avere paura di condividere la propria sicurezza per attuare una difesa integrata.”

La posizione del neo ministro su nuovo assetto della Libia e sul ruolo militare dell’Italia sembra essere chiara: “Il problema principale dei libici è ora di sicurezza interna e del territorio. Non è che la loro prima preoccupazione sia costruirsi una marina, avere una portaerei. Nel campo del controllo marittimo hanno comunque un minimo di capacità di sorveglianza delle proprie acque territoriali, anche se poca roba. Quanto allo spazio aereo è controllato dalle Libian civilian authority insieme con l’Icao. Hanno aeroporti a Bengasi, Tripoli, Mitiga Sabha. Non è un problema di basi, casomai di assetti. Non c’è bisogno di usare basi aeree italiane e non ho visto richieste in questo senso.”

Anche la sua posizione sulle priorità dell’Alleanza NATO sembra essere chiara: “Oggi le nostre società dipendono fortemente dallo spazio cibernetico, dal suo utilizzo legittimo e libero. Nel momento in cui venisse severamente minacciato, il nostro modo di vivere cambierebbe. È un importante bene comune così come lo erano gli oceani per navigare e per i commerci. La difesa di questo spazio comune è fondamentale. Non c’è operazione militare – dalla Libia al Kosovo o all’Afghanistan – in cui noi non utilizziamo il cyberspazio per le comunicazioni, lo scambio di dati, il posizionamento. L’Alleanza deve proteggersi e garantire l’uso libero e sicuro dello spazio cibernetico.”

Corrado Rubino

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