Una memorabile vittoria dei greci siciliani: Siracusa, anno 413 a.C.

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NELLE PAROLE DI TUCIDIDE UNA CRONACA DI STORIA CHE VEDE LA SICILIA, COME SPESSO È ACCADUTO ANCHE IN SEGUITO, OBIETTIVO DI CONQUISTA

Quando la terribile notizia arrivò ad Atene molti non vollero credere a quello che si diceva in giro, per le vie, nei negozi e nei mercati della città bassa. Incredula la gente cercava chi avesse portato quella terribile notizia, cercava i reduci di ritorno dalla Sicilia per sentire dalla loro viva voce cosa fosse successo agli altri, lì in quella lontana terra d’occidente.
Un disastro, una carneficina, una maledizione degli dei; questo si diceva giù, al porto del Pireo. Morti in combattimento, annegati, catturati, trucidati, ridotti in schiavitù. Più di 15.000 uomini fra opliti, peltasti, arcieri, cavalieri, marinai, servi ecc. scomparsi oltremare. Un intero contingente militare salpato dal quel porto e da quelli delle polis alleate di Atene, era stato annientato, distrutto da… da chi?
La maggior parte del minuto popolo di Atene non sapeva neanche quant’era grande quell’isola e quanti greci o barbari l’abitassero. L’immane tragedia ora la raccontavano i pochi superstiti tornati a casa in condizioni pietose. Una volta fieri opliti ateniesi oggi uomini spezzati nel corpo e nella mente. Maledetti Siracusani … la rabbia della gente si levò al cielo assieme alle grida di dolore delle donne che non videro tornare padri, mariti, figli e fratelli. Né a consolarle un corpo sul quale piangere.
Era il terzo anno dopo la 91ª Olimpiade (agosto del 413 a.C.); ma era anche il 19° anno della guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta, ed era accaduto quello su cui nessuno avrebbe scommesso neanche mezzo obolo. Siracusa, alleata di Sparta, aveva sconfitto, in terra di Sicilia, le falangi della potente Atene e dei suoi alleati; aveva affondato la flotta delle temibili triere della signora dell’Egeo, faro della civiltà greca e primo partner commerciale della Magna Grecia.
La democratica Siracusa, al contrario di Atene, esultava e con essa tutte le città siceliote che avevano partecipato e creduto nella vittoria della più potente città greca della Sicilia. Anche loro avevano avuto i morti, ma erano eroi e potevano essere pianti, potevano avere un funerale.
Gli Ateniesi erano venuti in Sicilia per conquistare, per sottomettere, per assicurarsi il grano siciliano e tutto quanto era necessario a vincere la guerra contro Sparta: ma fu un tragico errore. Il vecchio generale Nicia aveva visto giusto: i siciliani non si sarebbero sottomessi facilmente al giogo ateniese.

 

Chi era Tucidide?

Ma torniamo indietro di qualche anno. Come si arrivò a questa memorabile vittoria ce lo racconta Tucidide nella sua del PeloponnesoIl grande storico greco è contemporaneo ai fatti, ed è forse la fonte più diretta che ci permette di rivivere, quasi come se fossimo presenti a Siracusa, i momenti dello scontro. Tucidide è tra l’altro attore di alcuni degli avvenimenti di quel tempo. Allo scoppio della guerra, nel 431, ha circa trent’anni e nell’inverno del 424, eletto stratega, gli viene assegnata una squadra navale, in assetto di guerra, nello scacchiere dell’Egeo settentrionale. Compito: difendere le basi costiere ateniesi in Tracia. Ma il generale spartano Brasida attacca, con una armata terrestre, la città di Anfipoli nel cuore dei possedimenti greci in Tracia. Tucidide riceve l’ordine di intervenire ma lo fa maldestramente ingenerando nei superiori il sospetto di tradimento. Egli stesso scrive: «Mi toccarono venti anni di esilio dalla mia patria, frutto di quella strategia che esercitai ad Anfipoli; mi fu così dato di frequentare ambedue i terreni d’operazione e, a causa della mia sorte d’esule, d’esser vicino soprattutto al campo dei Peloponnesi e di documentarmi con scrupolo minuzioso su ogni piega, su ogni sfumatura dei singoli episodi.»
Tucidide vive e scrive in un periodo di revisione e di critica della tradizione. Egli nega i concetti assoluti, le certezze e le verità precostituite di cui sono pieni i miti, la religione e il moralismo della tradizione dei suoi tempi. Insomma è uno storico anticonformista. Usa il dialetto attico, che per la prima volta viene usato in prosa, ed è consapevole di scrivere in un modo nuovo. Nell’esposizione dei fatti resta imparziale fra i contendenti, ed anche se è legato al partito dei conservatori ateniesi, si mantiene sufficientemente distaccato. A maggior ragione quando sarà allontanato da Atene colpevole di non essere riuscito ad impedire il colpo di mano del generale Brasida contro Anfipoli. Del resto ha una invidiabile posizione economica che, anche da esule, non lo costringe a cercare protettori per i quali scrivere una “Storia compiacente”.

Le cause dell’intervento ateniese

La guerra del Peloponneso fu la più sanguinosa guerra combattuta nell’antichità tra popoli di etnia greca. Durò circa trent’anni (era iniziata dopo l’87ª Olimpiade) e fu provocata dalla volontà politica di Atene di ottenere il predominio su tutto il mondo greco. Dopo la vittoria dei Greci sui Persiani all’inizio del 5° secolo, Atene vide notevolmente aumentato il proprio prestigio e forte di questa posizione aveva trasformato la libera Lega di Delo, dov’era inter pares, in un impero marittimo e commerciale in cui il governo ateniese dettava legge. Tutto questo durò fino a quando i dissidenti non trovarono ascolto e sostegno in Sparta decisa ad opporsi all’egemonia ateniese. motivi di contrasto che provocarono il conflitto potevano essere appianati, ma il desiderio dei contendenti e soprattutto degli Ateniesi, guidati da Pericle, di affermare la propria egemonia su tutte le stirpi greche, non permise che si arrivasse ad una soluzione pacifica.
diciassette anni di guerra il conflitto si allargò anche alla Sicilia e la causa scatenante fu uno “sconfinamento” delle truppe di Selinunte, città alleata di Siracusa, nel territorio di Segesta, città degli Elimi. La cavalleria di Selinunte, varcato il fiume che divideva i territori delle due città, aveva occupato la sponda degli Elimi e gran parte del territorio limitrofo. Al primo scontro i Segestani avevano subito una grave sconfitta e allora decisero, d’accordo con gli esuli Calcidesi di Leontinoi (Lentini) e con altri sicelioti (così chiamati i greci di Sicilia) che si sentivano minacciati dalla politica siracusana, di rivolgersi ad Atene: la grande potenza d’oltremare. Grecia la richiesta d’aiuto, portata dagli ambasciatori di Segesta nell’inverno fra il 416 e il 415, fu discussa in assemblea. Ma l’eventuale intervento ateniese non sarebbe stato certamente disinteressato, e quindi fu deciso d’inviare in Sicilia osservatori che riferissero circa la situazione politica nell’isola e la consistenza delle risorse economiche dei Segestani; visto tra l’altro che i loro ambasciatori avevano anche detto che Segesta era pronta a fornire i mezzi finanziari sufficienti per armare una flotta di 60 triere (o triremi). Al ritorno degli osservatori, gli Ateniesi intravidero la possibilità di risollevare la propria economia bellica sfruttando le ricchezze che gli osservatori stessi riferirono di aver visto nei templi e nelle casse dell’erario della città siciliana. Resi euforici anche dalla situazione favorevole che Atene stava attraversando nella lotta contro Sparta, gli Ateniesi decisero di inviare le 60 navi richieste con a capo della flotta tre strateghi con pieni poteri: Nicia, Alcibiade e Lamaco.

La vittoria degli interventisti

Il generale Nicia, che aveva sostituito Pericle morto nel 429, era un aristocratico conservatore, uno dei più ricchi fra gli Ateniesi. Imprenditore e possidente fondiario, attento ai propri interessi era aggrappato ai suoi principî della religione e della morale tradizionale. Un uomo d’alti tempi si direbbe oggi: un bacchettone. Entrò nella vita politica mentre era in auge Pericle. La classe dei possidenti fondiari era totalmente avversa a questa guerra; riteneva di averne solo danni e nessun vantaggio. Quindi Nicia, che ne era l’alfiere, non era interventista. Malgrado tutti conoscessero questa sua posizione politica gli fu affidato l’incarico di comandare la spedizione in Sicilia. Aveva almeno 55 anni e non godeva di ottima salute. Invano cercò, con consigli di prudenza, di far desistere i concittadini dall’impresa, prospettando le complicazioni che potevano facilmente nascere per Atene quando questa (nella situazione tuttora fluida nonostante il trattato con Sparta) si fosse ulteriormente indebolita per una spedizione in un’isola dove Atene non aveva immediati interessi. E poi, solo per andare in soccorso “di stati lontani per stirpe da noi” (si riferiva agli Elimi) o ” di esuli sempre in caccia d’aiuti” (si riferiva ai Lentinesi), Atene si sarebbe attirata certamente l’ostilità della potente Cartagine. questo suo parere parlò all’assemblea il collega generale Alcibiade; venticinque anni più giovane di Nicia. Rampollo di famiglia nobile per parte di madre, fu eletto stratega appena raggiunta l’età legale di trent’anni. Dapprima fu tra le fila del partito democratico ma dopo la sconfitta ateniese di Mantinea ad opera degli spartani, passò tra quelle del partito conservatore di Nicia. Con il suo atteggiamento rampante si era fatto molti nemici e non erano pochi quelli che pensavano che egli coltivasse segretamente l’ambizione del tiranno. Ebbero però successo gli incitamenti dell’immodesto ed ardente Alcibiade, che illustrava al popolo prospettive di gloria militare e di primato ateniese. Contro la senile prudenza del suo avversario, esaltò l’orgoglio civico e sciorinò un abile disegno di facili conquiste contro genti che sicuramente avrebbero tremato solo alla vista delle triere ateniesi e sarebbero caduti sotto l’urto delle falangi di opliti. il vecchio generale Lamaco era favorevole alla spedizione; del resto anche se non era un militare di professione aveva dimostrato in diverse occasioni, contro gli Spartani, di essere un valoroso. a questo punto, riconosciuto vano ogni tentativo di persuasione, pensò di assecondare la scelta di approntare il corpo di spedizione in Sicilia, confidando nel fatto che la mole dei preparativi militari ch’egli aveva l’autorità di consigliare, come esperto uomo di guerra, e il diritto di esigere, come stratega, avrebbe indotto gli Ateniesi a rinunziare alla spedizione. Parlando ancora in assemblea mise quindi in evidenza le forze militari ed i mezzi di cui potevano disporre i sicelioti, le deficienze Ateniesi per una guerra in terra di Sicilia e l’impreparazione dei Segestani, alleati poco validi. Ma le difficoltà prospettate non fecero altro che confermare negli Ateniesi la loro decisione, in quanto le osservazioni di Nicia, tecnicamente fondate, diedero all’assemblea la sicurezza che il corpo di spedizione, risolti i problemi militari e logistici, avrebbe avuto successo.
popolo approvò la spedizione in Sicilia. Ai tre strateghi, eletti al comando del contingente che sarebbe stato uno dei più potenti che la lega Attica abbia mai potuto approntare, furono pertanto conferiti pieni poteri perché provvedessero ad integrare la spedizione secondo l’avviso di Nicia. stesso scrisse che era costituito da almeno 7000 fanti, di cui 5100 opliti, e 134 triere. Solo Atene ne aveva fornito 60 da guerra e 40 per il trasporto degli opliti; altre triere e navi onerarie furono chieste agli Stati della Lega. Gli opliti ateniesi, nucleo dell’armata terrestre, furono scelti con leve accurate: ad essi si aggiunsero arcieri ateniesi e cretesi e frombolieri rodii; mentre per la cavalleria si confidava sull’aiuto degli alleati che pensavano di trovare in Sicilia. Si provvide con la necessaria larghezza al vettovagliamento dell’imponente armata. Il ricordo bruciante degli insuccessi della prima spedizione faceva assumere alla nuova il carattere di un’impresa d’assai più vasta portata che non un intervento in aiuto di Segesta.
Gli Ateniesi pensavano ormai di sottoporre alla loro egemonia tutta la Sicilia (almeno la Sicilia di etnia greca). Nicia aveva considerato, nella sua valutazione delle forze avversarie, soltanto le città siceliote, ma Alcibiade sognava di portare la guerra fino a Cartagine, e quindi, a questo proposito, non è da escludere che dava alimento alla spedizione anche il desiderio del primato internazionale, lo spirito d’avventura, la speranza di fare affari e la curiosità di terre lontane. Si decise così di imbarcarsi per l’epica impresa…

 

L’inizio della spedizione non fu sotto i migliori auspici

Il nostro racconto inizia nell’inverno dell’anno 416, quando hanno inizio le operazioni militari. Gli opliti, fanti pesanti ateniesi, nucleo principale dell’armata terrestre, vengono radunati nel porto del Pireo. Ma alla fine di maggio del 415, quasi alla vigilia della partenza, accade un fatto che segnerà lo sviluppo delle operazioni militari. I nemici di Alcibiade, approfittando dell’indignazione popolare nata dall’improvvisa scoperta della mutilazionedelle Erme nelle strade di Atene, accusano lui di questa e di altre empietà. L’accusa ha subito credito perché Alcibiade non è uno stinco di santo. Ma mancano le prove sicure e quindi il processo viene rinviato. L’assemblea del popolo decide che Alcibiade parta lo stesso per la Sicilia. primi d’agosto la spedizione salpa alla volta dell’isola di Corcira (isola di Corfù), poi di Taranto, e prosegue verso la Sicilia costeggiando l’Italia, senza riscuotere simpatia fra le città costiere della penisola cioè della cosiddetta Magna Grecia; la maggior parte di esse concede solo acqua e un ormeggio aperto; tutte negano alle truppe ateniesi ospitalità entro le mura. Reggio, l’antica alleata si dichiara neutrale e non concede l’accesso degli Ateniesi in città. Messana (Messina), ha un comportamento analogo a quello di Reggio. Anche altre città calcidesi, tranne Naxos, si mostrano fredde nei confronti di Atene. Evidentemente la maggioranza degli antichi coloni greci, sia in Italia che in Sicilia, è preoccupata dagli sviluppi della politica imperialista ateniese, e ora si preparano a tutelare uniti i comuni interessi e l’indipendenza. frattempo, a Siracusa, quando si apprende dell’arrivo degli Ateniesi si provvede rapidamente alla difesa della città e a preparare la flotta di 80 triere. I Siracusani sapevano di essere loro l’obiettivo principale della spedizione ateniese. I piani dei tre strateghi Ateniesi per le operazioni in Sicilia variano a seconda dell’indole e della visione strategica di ciascuno di essi. Prevale, tuttavia, la strategia di Alcibiade che propone di inviare ambasciatori nelle città siceliote e sicule che potrebbero diventare alleate, soprattutto Messana. Riconosciuti così gli amici e i nemici, attaccare Siracusa da terra e dal mare. il tentativo di concludere l’alleanza con Messana fallisce; gli strateghi si trasferiscono, con 60 navi (lasciando il resto a Reggio), prima a Naxos, che li accoglie all’interno delle mura, e poi a Katane. Per gli Ateniesi avere una base vicina a Siracusa è di vitale importanza, ma Katane ha scelto di rimanere neutrale, anche perché in città è presente un forte partito filo siracusano. È quindi a Katane che gli Ateniesi forzano la situazione con l’inganno. Alcibiade e gli altri generali chiedono e ottengono di entrare da soli in città per esporre le loro proposte in assemblea ai cittadini; ma mentre Alcibiade parla al popolo, accorso tutto all’assemblea nel teatro, gli opliti ateniesi penetrano di sorpresa in città da una porta poco sorvegliata: i filo Siracusani, contrari a dare ospitalità agli Ateniesi, fuggono, e l’assemblea cittadina è costretta a decretare l’alleanza con Atene. Gli strateghi trasferiscono quindi tutta la flotta da Reggio a Katane e organizzano la base per le operazioni militari. ad Atene Alcibiade è accusato definitivamente di sacrilegio. Viene richiamato in patria; obbedisce all’ingiunzione della sua città, e parte dalla Sicilia ma, immaginando la sua sorte futura, fa perdere le sue tracce. Raggiunge Sparta, e mette al servizio dei nemici di Atene la sua conoscenza dei piani per la guerra in Sicilia e la sua naturale abilità politica e strategica, consigliando anche l’invio a Siracusa del generale spartano Gilippo. Alcibiade, verso la fine dell’estate del 415, Nicia, rimasto in Sicilia, commette l’errore di non attaccare subito Siracusa ma si scontra prima con le truppe di Selinunte e Iccara, poi assalta Ibla Geleatis, nella zona etnea; ma la città non cede. Questo insuccesso dà coraggio ai Siracusani, e anche il fatto di non essere stati attaccati subito dagli strateghi ateniesi li conforta. per iniziare l’inverno fra il 415 e il 414. Nicia e Lamaco mettono a punto un piano per attirare le truppe siracusane il più lontano possibile dalla città e occupare quindi, una posizione strategica favorevole per l’attacco a Siracusa. In realtà la preoccupazione dei generali è l’assenza nello schieramento ateniese di reparti di cavalleria da contrapporre a quella siracusana che è numerosa e validissima. Il piano è questo: mandare a Siracusa un catanese accreditato presso i Siracusani il quale, fingendosi un emissario dei filo Siracusani di Katane, deve informare i Siracusani stessi che molti soldati ateniesi abitualmente, di notte, bivaccano in città, e quindi convincerli ad impiegare tutte le loro forze in un assalto notturno al campo ateniese. Gli strateghi di Siracusa cadono nella trappola e danno l’ordine di muovere nottetempo verso Katane con tutto l’esercito, rafforzato anche dai contingenti di Selinunte e degli altri alleati. Appena gli Ateniesi apprendono dalle loro spie che il nemico è arrivato nel territorio di Leontinoi, imbarcano tutto il contingente sulle navi, riparate lungo la spiaggia di Katane, e sbarcano all’alba sulla riva occidentale del porto grande di Siracusa.
Si fortificano su un’altura, a sud dell’Olympieion, il santuario di Zeus Olimpio, per difendersi dalla cavalleria. Quando i siracusani capiscono l’inganno tornano velocemente indietro e tentano di assalire il nuovo campo ateniese ma, stanche della lunga marcia, l’attacco fallisce e Nicia e Lamaco possono prepararsi per la battaglia del giorno seguente.

 

La battaglia dell’Olympieion

All’alba gli Ateniesi e i loro alleati si preparano alla battaglia: il centro dello schieramento è tenuto dal contingente ateniese, a destra quelli di Argo e Mantinea, a sinistra gli altri alleati; tutti gli opliti sono schierati in formazioni quadrata su 8 file; la terribile formazione a falange.lo schieramento siracusano non è da meno. I generali schierano gli opliti su ben 16 file di profondità e in più, a differenza degli Ateniesi, dispongono di almeno 1200 cavalieri sull’ala destra assieme ai lanciatori di giavellotti; del contingente fanno parte anche truppe di Selinunte, di Gela e di Camarina. Gli Ateniesi attaccano per primi e prendono di sorpresa i Siracusani che non si attendono da loro la prima mossa offensiva. La fanteria leggera siracusana si sbanda, si scompone e non regge al primo assalto dei peltasti avversari. Ma ai Siracusani non manca il coraggio; a differenza degli Ateniesi, loro combattono per la propria terra per le proprie case; semmai non hanno l’esperienza delle truppe elleniche. I Siracusani arretrano, si riorganizzano; adesso iniziano gli assalti dei lanciatori di giavellotti, dei frombolieri, degli arcieri contro le rispettive truppe leggere. Il cielo si riempie di nugoli di giavellotti, di pietre, di palle di piombo, di frecce che partono da uno schieramento all’altro. Dopo l’assalto delle truppe leggere ora, al suono delle trombe, muovono all’attacco gli opliti di ambedue gli schieramenti. In campo aperto la fanteria pesante ateniese è molto temibile. L’urto delle falangi è potente. Il rumore delle lunghe lance che s’intrecciano precede di qualche istante quello assordante degli scudi delle prime linnee degli opliti che si scontrano. Ma gli opliti siracusani resistono e rispondono agli assalti. Sfortunatamente per loro scoppia un temporale con tuoni e fulmini e l’esperienza al combattimento gioca un ruolo a favore dei veterani di Argo che sbaragliano gli avversari. Dopo anche gli Ateniesi mettono in fuga i loro avversari, e infine tutta la fanteria siracusana si ritira. È la sconfitta; ma non per la cavalleria siracusana che rovina la festa ai vincitori perché evita l’inseguimento e il massacro dei fuggitivi.bottino, niente trofei.
battaglia è servita a Nicia e a Lamaco per capire che senza una cavalleria non avrebbero potuto battere i loro nemici in campo aperto. Siracusa invece molti sono consapevoli d’avere di fronte i migliori soldati di Grecia; essi stessi si definiscono dei principianti a confronto dei professionisti d’oltremare; ma individuano subito i rimedi: i generali, cioè gli strateghi, vengono ridotti da 15 a 3; vengono arruolati nuovi opliti e gli altri dotati di nuove armi; si costruisce un muro difensivo che protegge la zona di Acradina e Temenite; si intensifica l’addestramento fisico e la disciplina in combattimento. Non è uno sforzo da poco. L’armamento personale di un oplita pesa 35 chili: elmo, corazza, spada, schinieri, scudo e lancia. Inoltre si deve essere bene allenati per correre con quel peso addosso, tenendo lo scudo e la lancia, e si deve essere bene addestrati a muoversi in sincronia con gli altri compagni.frattempo i Siracusani inviano anche degli ambasciatori a Corinto e a Sparta per sollecitare l’invio di un loro contingente in soccorso.e Lamaco si ritirano a Naxos per passare l’inverno. Occorrono nuovi fondi per le spese di guerra, e le vettovaglie. Per l’offensiva di primavera sarà opportuno assicurarsi l’aiuto di altri sicelioti, alle cui esitazioni avrebbe presumibilmente posto fine una vittoria ateniese.realtà all’interno del contingente ateniese si va dissolvendo l’entusiasmo dei primi momenti. Gli uomini si chiedono perché molte genti della loro stessa stirpe non sono loro alleati; perché i loro capi sono così indecisi. Specialmente la battaglia davanti a Siracusa, durante il temporale, ha deluso le aspettative dei soldati di Atene; la vittoria duramente ottenuta sul campo è rimasta praticamente inefficace. L’eccellente operazione riuscita dello sbarco di sorpresa non ha condotto ad altro risultato che indurre Siracusa a premunirsi contro ogni attacco del genere. situazione è delicata, difatti, da Naxos, gli strateghi chiedono ad Atene denaro ed un corpo di cavalleria.
Sull’altro fronte Sparta decide di mandare a Siracusa un esperto stratega, Gilippo, (sponsorizzato da Alcibiade che è passato al nemico) per organizzare l’invio degli aiuti e dirigere le operazioni di guerra. Inoltre Corinto, ora alleata di Sparta, decide di inviare in aiuto di Siracusa una flotta di navi da guerra. Gli aiuti di Atene, invece, giungono a Katane al principio della primavera del 414: si tratta di nuovi fondi e di 250 cavalieri con bardature ma senza cavalli. Nicia li dovrà chiedere agli alleati.

 

Le battaglie dell’Epipole

 

Poco dopo si ricomincia. Il corpo di spedizione sferra un nuovo attacco. La flotta ateniese si sposta e approda di notte nella baia di Tapsos, a nord di Siracusa. I Siracusani riescono a sapere in anticipo dell’attacco ateniese alla città ma perdono tempo prezioso e l’esercito nemico, sbarcato all’alba, occupa l’Eurialo dilagando in una zona strategica importantissima: l’Epipole, la terrazza rocciosa che sovrastava Siracusa. I Siracusani tentano di contrastare il controllo dell’Eurialo ma lasciano sul terreno circa 300 opliti scelti. Gli Ateniesi, rafforzati dall’arrivo di 400 cavalieri Siculi, di Naxos e di altri alleati sicelioti, si preparano a bloccare Siracusa con una fortificazione e un muro che dovrebbe chiudere la città da terra. Un muro che si deve estendere da nord, cioè da Trogilo, attraverso l’Epipole, fino a sud, al porto grande. Siracusani tentano più volte di ostacolare il compimento di questo muro; e dopo vari scontri e sortite, in un’aspra battaglia che si svolge nella zona paludosa di Lisimeleia presso il porto grande, gli Ateniesi costringono i nemici a ritirarsi nella città: ma durante il combattimento muore da valoroso il generale Lamaco. Nicia, rimasto unico comandante del contingente ateniese, riesce a rendere vani i nuovi attacchi dei Siracusani contro la fortificazione che ha fatto costruire nell’Epipole, finché da Tapsos giunge la sua flotta nel porto grande e i suoi opliti arrivano in suo soccorso. ‘assedio si completa; Siracusa è ora bloccata sia da terra che dal mare. notizia fa subito il giro della Sicilia e della Magna Grecia e adesso agli Ateniesi cominciano ad arrivare rifornimenti ed aiuti da ogni parte. Anche gli Etruschi inviano aiuti, memori della sconfitta subita ad opera di Gerone. Atene appare prossima a raggiungere il suo principale obiettivo in Sicilia, i Siracusani, assediati e privi di notizie da Corinto, destituiscono i loro strateghi e iniziano trattative di pace con Nicia. generale spartano, Gilippo, è già in navigazione quando riceve la notizia dell’assedio di Siracusa. Appena giunto a Locri apprende invece che Siracusa non era ancora interamente bloccata e la si può ancora raggiungere da terra, perché il muro, iniziato dagli Ateniesi, non è stato ancora inspiegabilmente completato; evita il blocco navale ateniese, approda ad Imera (Termini Imerese) con 4 navi e, organizzato un discreto contingente di 2700 fanti e 100 cavalieri, Gilippo corre a tappe forzate in soccorso di Siracusa passando attraverso quella zona dell’Epipole che gli Ateniesi non hanno fortificato. Il suo arrivo, nell’agosto del 414, coglie di sorpresa gli Ateniesi.
è lo stratega spartano che pone le condizioni. L’assedio deve cessare e gli Ateniesi, entro 5 giorni, devono lasciare la Sicilia. La proposta viene sdegnosamente respinta da Nicia. , collegate le sue forze con quelle dei Siracusani, impedisce definitivamente il compimento del muro di accerchiamento, togliendo così agli Ateniesi ogni possibilità di bloccare Siracusa da terra. Infatti i Siracusani costruiscono un muro che blocca a nord quello ateniese accerchiando a loro volta l’esercito nemico nella zona meridionale dell’Epipole. È questa la mossa vincente. fallimento delle operazioni terrestri non è estranea la negligenza di Nicia, che ha trascurato di completare il muro attorno ad Acradina, confidando che il prestigio ottenuto dalle armi ateniesi valesse ad impedire un intervento in aiuto di Siracusa da parte di altre città dell’isola.
a ottobre e Nicia deve porsi il problema dello svernamento. Il mare è la principale via di rifornimento per gli Ateniesi; lo stratega decide quindi di spostare la sua base navale dal porto grande al promontorio di Plemmirio. Nelle sue intenzioni la nuova base avrebbe evitato alle navi ateniesi la traversata del porto qualora avessero dovuto impegnare battaglia in mare aperto. Fa costruire dunque tre forti che permettano l’ormeggio sicuro delle navi; ma l’acqua potabile è scarsa e lontana, e la onnipresente cavalleria siracusana assalta di continuo gli Ateniesi con azioni di disturbo. Ormai l’esercito che aveva bloccato Siracusa dall’Epipole al porto grande domina solo la parte meridionale dell’Epipole e l’ingresso del porto, e tra l’una e l’altra zona le comunicazioni per terra sono interrotte, sicché anche la parte a sud più interna del porto risulta essere insicura per gli Ateniesi.
La critica posizione in cui si trovavano gli Ateniesi, praticamente assediati dalla parte di terra e costretti a tenersi sulla difensiva, induce Nicia ad insistere con maggiore urgenza nella richiesta di aiuti. La flotta, benché fosse la maggiore tra quante i Greci avevano fin allora messo in mare, era logorata nel materiale; gli equipaggi e l’esercito di terra erano decimati dagli scontri dai continui attacchi di disturbo della cavalleria e dai disagi. Ormai quasi l’intera Sicilia, tranne Ákragas (Agrigento) rimasta neutrale, schiera compatta le sue genti d’origine greca a fianco dei Siracusani contro Atene e i suoi alleati.

 

Arrivano nuovi aiuti per gli Ateniesi

Nella primavera del 413 Atene appronta per Nicia un altro contingente formato principalmente da 73 navi da guerra con 5000 opliti e 2000 peltasti, al comando dello stratega Demostene. in Sicilia, prima dell’arrivo di Demostene, le sortite delle navi siracusane infliggono nuove perdite alla squadra navale ateniese. Gilippo è appena rientrato a Siracusa dopo aver raccolto aiuti presso le altre città siciliane ed assieme ad Ermocrate maturano la convinzione che bisogna attaccare la flotta ateniese dentro il porto grande. Idea pazza per molti. In effetti il primo scontro in mare non va bene: 75 triere siracusane non riescono ad avere ragione di 60 triere ateniesi, perdendone 11 colate a picco. Ma i siracusani traggono subito le informazioni necessarie per correre ai ripari. Nei mesi estivi ci riprovano di nuovo a scontrarsi con le navi ateniesi, ma stavolta hanno accorciato e reso più massicce le prue e hanno applicato alla curvatura prodiera delle triere dei robusti pali sporgenti all’esterno di circa due metri e mezzo. Allo scontro successivo, che ha come teatro di nuovo il porto grande, le modifiche tecniche permettono ai piloti delle triere di usare una tattica d’attacco diversa da quella ateniese. Mentre la tattica d’attacco delle triere ateniesi prevede l’aggiramento laterale alla nave nemica e il successivo speronamento perpendicolare sul debole fianco della nave, le triere siracusane attaccano direttamente, quasi frontalmente, prua contro prua, conficcando nella zona prodiera i propri speroni. Ad ogni urto le navi siracusane aprono voragini immense nel fasciame anteriore delle navi ateniesi. Affondate 7 navi e danneggiate molte altre si ritirarono, e stavolta il morale è alle stelle. La flotta ateniese è battuta.
Poco dopo, alla fine di luglio, arriva il contingente ateniese di Demostene e l’imponente dimostrazione di forza da parte degli invasori getta i siracusani nello sconforto. Demostene, che è forse il migliore dei generali ateniesi, sa che l’effetto demoralizzante del suo arrivo non durerà molto nei nemici e allora decide di attuare subito un attacco terrestre. Ma vano risulta essere il suo assalto notturno contro il muro con cui i Siracusani hanno impedito che gli Ateniesi completassero quello destinato a bloccare la città dalla parte di terra. L’insuccesso e le perdite demoralizzano anche le truppe della nuova spedizione e Demostene propone a Nicia, interpretando il desiderio dei soldati, di abbandonare Siracusa fin quando per loro è ancora libera la via del mare. Nicia, spaventato dalle conseguenze che avrebbe avuto la fuga in Atene, in un primo tempo non accetta il piano di Demostene, ma quando viene a sapere che Gilippo ha raccolto altre truppe nell’isola e dell’arrivo di altre navi dalla Beozia e dal Peloponneso, Nicia si convince e aderisce al piano di Demostene.

L’eclissi di luna

Ma proprio durante quella notte di luna piena in cui gli Ateniesi sono pronti a partire accade qualcosa che fu fatale per gli Ateniesi: un eclissi di luna. La luna piena si oscura e getta nel terrore il superstizioso Nicia e non solo.
È la notte fra il 27 e il 28 agosto del 413. Un presagio? Si, certamente un presagio. Ma come interpretarlo? Nella mente di Nicia appare un nome: Stilbide, il suo esperto indovino. Ma è morto. Si, è morto durante l’assedio; e allora il generale manda a chiamare altri àuguri i quali predicono grandi sciagure se non si fosse rimandata la partenza di tre volte nove giorni: un intero mese lunare. Anche se si tratta di dilettanti nessuno osa contraddirli; è un errore e sarà pagato amaramente da Nicia. Siracusani, incitati dai loro strateghi e da Gilippo, di lì a poco infliggeranno al nemico una catastrofica sconfitta sul mare costringendo Demostene a scontrarsi in un ristretto specchio d’acqua. Nei primi giorni di settembre, infatti, nel porto grande, 76 navi siracusane affrontano 86 navi ateniesi. Le veloci, leggere e temibilissime triere ateniesi non sono preparate per combattimenti in acque chiuse. I rostri siracusani gettano lo scompiglio al primo attacco il centro dello schieramento nemico. Una squadra ateniese posta all’ala destra dello schieramento tenta di aggirare i Siracusani ma sbaglia la manovra e si ritrova, facile preda, isolata nell’insenatura più a sud del porto grande. Lo schieramento principale viene circondato e molte triere ateniesi vengono inseguite e spinte verso terra. Si accende anche lo scontro fra reparti di opliti che dalla riva tentano di impossessarsi della navi spiaggiate. Gli Ateniesi riescono a mettere in fuga i Siracusani ma pagano con l’affondamento di diverse navi e la cattura di altre 18.
Ora Nicia vuole affrettare la ritirata e si prepara all’ultima decisiva battaglia navale. Deve riuscire a rompere l’assedio siracusano. In ambedue gli schieramenti gli uomini si rendono conto che si tratta dello scontro decisivo. Per gli Ateniesi e i loro alleati si tratta di salvare la faccia e la pelle, visto come sono andate finora le fasi della guerra. Nicia, prima di dare il via allo scontro, aveva fatto del suo meglio per risollevare il morale di marinai e fanti; aveva anche spiegato che, trattandosi di uno scontro in un ristretto specchio di mare, sulle veloci, leggere e temibilissime triere ateniesi, sarebbe stata schierata una folla di arcieri e lanciatori di giavellotti, che normalmente sarebbero stati d’intralcio nei combattimenti in mare aperto, ma che ora sarebbero tornati utili prevedendo scontri ravvicinati con le navi nemiche. Inoltre li aveva tranquillizzati dicendo che sarebbero stati usati degli arpioni di ferro che, lanciati contro le triere siracusane, le avrebbero agganciate impedendo loro di arretrare dopo aver subito lo speronamento, permettendo così alla fanteria imbarcata di assalire la nave nemica. In precedenza, gli strateghi siracusani avevano dato ordine di ostruire l’imbocco del porto con varie navi all’ancora.

 

Lo scontro navale definitivo

La prima a muovere è una squadra navale ateniese che si lancia verso lo sbarramento all’ingresso del porto grande convinti di riuscire a passare. Riescono a disperdere le navi di guardia allo sbarramento ma mentre cercano di tagliare le catene che ostruiscono il passaggio vengono assaliti dalle navi siracusane che sopraggiungono da tutti i lati. È lo scontro generale: le due formazioni navali si affrontano, dapprima ordinatamente poi in modo sempre più caotico. Nella rada del porto grande ora è un inferno. Circa 400 navi si affrontano in un furioso scontro di legni, di remi, di ordini di voga, di tamburi, di rumori di scafi sfracassati dai rostri, di grida, di canti, d’imprecazioni. i circa 170 rematori imbarcati su una triere non è agevole manovrare in acque chiuse. La mossa tattica di Nicia di imbarcare più fanti del previsto peggiora la situazione e quindi risulta perdente. Le triere sono meno manovrabili e la fanteria, non abituata a combattere sulle navi, non è poi così efficace come si sperava. I siracusani lo sapevano già in anticipo. Gilippo lo aveva predetto: “loro sono più pesanti e sono di più: meglio per noi, le triere s’intralceranno una con l’altra e sarà un gioco trafiggerle”. I siracusani hanno anche provveduto a neutralizzare il lancio degli arpioni con l’ingegnoso sistema di proteggere la prua e parte delle murate con strisce di cuoio su cui far scivolare i ganci. La battaglia ha fasi alterne e per un po’ le forze sembrano equivalersi. Trascorrono molte ore e finalmente i siracusani riescono a respingere verso terra gli Ateniesi. Terrorizzati gli equipaggi che riescono a toccare terra fuggono verso gli accampamenti. Il tentativo di forzare la barriera è quindi fallito. navi da guerra ateniesi, siracusane e spartane hanno dato vita ad un colossale, cruento spettacolo dentro lo scenario naturale del Porto Grande di Siracusa.sopra le mura di fortificazione della città i siracusani, dalla baia di Dascon e dalla costa del Plemmirion gli assedianti, come dalla cavea di un grande teatro, assistono atterriti alla violenza degli scontri.
Il fragore dello sfondamento delle fiancate delle triere da guerra sotto l’urto dei rostri delle navi avversarie; le grida di incitamento alla battaglia, combattenti che si fronteggiavano con grande accanimento, i corpi dei morti in mare, i lamenti dei feriti, l’affondamento delle navi, nella dettagliata descrizione di Tucidide, assumono toni di altissima drammaticità.

Il massacro

Nicia e Demostene decidono di imbarcare tutto e subito e di ritirarsi la stessa notte. Sono rimaste 60 navi in grado di prendere il mare sulle oltre 200 che avevano gli Ateniesi e i loro alleati. Ma quando gli strateghi danno l’ordine di riarmare le navi i marinai si rifiutano di tornare ai loro posti. è inevitabile la ritirata da terra, verso l’interno dell’isola, verso Camarina; lì potranno difendersi. Ma non vi arriveranno mai. Siracusa vuole vincere senza appello. resto è la storia di un massacro. Infatti i Siracusani hanno deciso di distruggere totalmente il contingente nemico, vogliono che questa vittoria su Atene resti scolpita nella memoria degli Ateniesi che erano venuti da conquistatori, ma soprattutto serva da monito a tutte le città della Sicilia e della Magna Grecia, alleate e non.
uomini divisi in due eserciti fuggono verso sud. Nicia comanda il contingente principale e Demostene la retroguardia. La cavalleria siracusana raggiunge per prima la retroguardia che viene subito attaccata con azioni di disturbo, martellanti, da ogni parte e per tutta la giornata. Fra morti e disertori restano seimila combattenti e Gilippo offre loro salva la vita se si arrendono e depongono le armi. Demostene accetta. Nicia nel frattempo fugge verso sud, verso il fiume Assinaro. Gli Ateniesi e i loro alleati sono ormai sfiniti dalla stanchezza, dal sole, dall’arsura, e quando arrivano sulla sponda dell’Assinaro è tanta la voglia di bere che non fanno neanche più caso ai Siracusani che li hanno accerchiati. Entrano alla rinfusa nelle acque basse del fiume, s’intralciano a vicenda si calpestano, cercano di bere, ma vengono colpiti da giavellotti e frecce. I morti insanguinano l’acqua e poi vengono trascinati via dalla corrente ma gli altri non smettono di bere. Il massacro continua fino a quando Nicia si arrende a Gilippo. Tutti gli Ateniesi e gli alleati presi prigionieri saranno rinchiusi nel fondo delle latomie di Siracusa. Gilippo vorrebbe salvare la vita a Nicia e Demostene perché li vuole portare a Sparta, ma i Siracusani sono di parere contrario. La condanna a morte per i generali ateniesi viene decretata dai Siracusani nel settembre dell’anno 413.
Questa sconfitta, la più grave che fino a quel momento avesse mai subito Atene, ne accelerò il declino come potenza politica. I democratici che l’avevano governata fino a quel tempo erano stati in più casi imprudenti e troppo fiduciosi nelle forze della loro città; ma, se nessuno di loro aveva avuto il genio di Pericle, la loro linea politica non si era discostata da quella che Pericle stesso aveva indicato, e che del resto era imposta ad Atene dalla funzione che essa aveva assunto nel mondo greco. La consapevolezza della sua potenza, della sua superiorità civile e delle sue vittorie militari avevano naturalmente alimentato un sentimento imperialistico che però, in Sicilia, si infranse contro la volontà di libertà di un popolo che, pur essendo greco anch’esso, aveva scelto la Sicilia come patria.

18/09/2011 – Corrado Rubino

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