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Tsunami sui Paesi del Maghreb

In edicola > Articoli pubblicati > N°4-5_2011

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A bocca aperta nel vedere governi e regimi all’apparenza incrollabili
Tutti presi (forse) in contropiede dallo tsunami
sui Paesi del Maghreb

Il quadro degli interessi italiani con il regime libico presenta consistenti interessi delle imprese nostrane in Libia: grandi appalti, forniture di materie prime, maxi-commesse che rischiano di restare congelati a lungo, o anche di finire in altre mani.

Fino a poche settimane fa, sull'asse Tripoli-Roma, in entrambi i sensi di marcia, hanno viaggiato denaro e opportunità di sviluppo: l'elenco delle imprese che fanno affari in Libia, oltre Eni, Finmeccanica, Impregilo (eccetera) comprende anche Telecom e Alitalia, Edison e Grimaldi, Visa e Saipem

Di VALTER VECELLIO

La cosa che più colpisce, e sconcerta, di tutto lo tsnumani che ha investito i Paesi del Maghreb è che tutto è accaduto tra la generale sorpresa. La sorpresa degli studiosi di questioni arabe e mediorientali: al pari dei cremlinologi che, vent’anni fa, non avevano previsto la caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo, sono rimasti a bocca aperta nel vedere governi e regimi all’apparenza incrollabili e graniti, sfarinarsi uno dietro l’altro, crollare come le tessere di un gigantesco domino. E passi: forse sono come gli economisti: che se fossero in grado davvero di prevedere e anticipare i flussi dei mercati, invece che insegnare all’università, tradurrebbero la loro scienza in giochi di borsa.

Gli studiosi, gli analisti, non prevedono, non hanno capito. Ma che dire di quelle persone che “istituzionalmente” hanno il compito di comprendere, capire, avere il polso della situazione e riferirne alle cancellerie dei paesi di cui sono al servizio? Si parla dei servizi di sicurezza. Non aveva previsto la CIA, ma da tempo gli americani ci hanno abituato a straordinari pasticci. Non i servizi segreti britannico e francese, non quello tedesco e russo; nessun servizio segreto arabo, e neppure il Mossad, il mitico “servizio” israeliano.

Anche loro, come tutti, presi di contropiede. Poggiava su piedi d’argilla il regime di Ben Alì e quello di Hosni Mubarak; e l’incendio della rivendicazione di “pane e democrazia” si diffonde con una velocità che solo sei mesi fa, a dirlo, si sarebbe stati presi per matti. E anche per quel che riguarda la Libia la cui rivolta, quale che possa essere il suo esito, ha rivelato la fragilità di un regime feroce e brutale.

Mentre l’attenzione nazionale e internazionale è concentrata sulla Libia nell’intero mondo arabo accade qualcosa che merita attenzione e non sembra che invece siano oggetto di particolare riflessione. Peccato: il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh ha destituito l'intero esecutivo nazionale, sulla spinta delle pressioni popolari per le violenze che venerdì hanno provocato la morte di almeno 52 manifestanti; a Beirut in Libano migliaia di persone sono scese in piazza per la terza volta in meno di un mese, per chiedere l'abolizione del sistema confessionale in vigore in Libano dal 1943. Almeno seimila manifestanti, uomini e donne di tutte le età con i bambini al seguito, hanno sfilato chiedendo “l'abolizione del regime confessionale” che considerano la radice dei principali mali del paese, tra cui corruzione, clientelismo e una guerra civile durata 15 anni. Il sistema confessionale prevede una rigida divisione degli incarichi istituzionali tra i diversi gruppi religiosi del Paese, stabilendo fra l'altro che il presidente sia un cristiano maronita, il premier un musulmano sunnita e lo speaker del parlamento uno sciita.

Ancora: migliaia di manifestanti hanno sfilato in diverse città del Marocco per chiedere maggiori diritti civili e protestare contro la mancata attuazione della riforma costituzionale promessa alcune settimane fa dal re Mohamed. Lo scorso 9 marzo re Mohammed aveva annunciato una vasta riforma della costituzione che prevedeva il riassetto del sistema giudiziario e un potenziamento del ruolo del parlamento e dei partiti politici. Proprio la riforma della giustizia è al centro delle richieste dei manifestanti. Ci sono poi le manifestazioni in Siria, il referendum che si è svolto in Egitto, i fermenti in Algeria…

Merita attenzione un severo, accigliato editoriale di Roger Cohen sul “New York Times”: “L’intera Unione Europea deve ripensare i suoi rapporti con il mondo musulmano. Per cominciare dovrebbe accogliere nell’Unione la Turchia: il suo ingresso contribuirebbe a far uscire il vecchio continente dalla ristrettezza di vedute che Orhan Pamuk (ndr.: scrittore turco, premio nobel per la letteratura) denuncia. Un’Unione Europea con dentro la Turchia non avrebbe reagito al risveglio arabo con il balbettio imbarazzato di questi giorni”. Prendiamo atto, al contrario, che la nostra politica estera è fatta da governanti – o meglio: sgovernanti – dal limitato orizzonte, che di politica estera capiscono poco e la concepiscono solo in funzione di quella interna, cioé delle loro lotte di potere. Una politica estera, se si può dire, alla Agostino de Pretis, che diceva che bisognava farne meno che si può, e che basta, quando si vedono all’orizzonte i nuvoloni “mettere le spalle al muro e aprire l’ombrello”. Con le conseguenze e gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti.

Pax Christi ha ricordato che l'Italia è il primo esportatore europeo di armamenti al regime di Gheddafi. Nel biennio 2008-2009 il governo italiano ha autorizzato alle proprie ditte l'invio di armamenti per oltre 205 milioni di euro, più di un terzo di tutte le autorizzazioni rilasciate dall'Unione Europea.

E dal momento che si parla di denaro, di “affari” (quegli affari che ci hanno fatto ingoiare le incredibili pagliacciate di Gheddafi nel corso delle sue visite in Italia) può essere utile tener presente il quadro degli interessi italiani con il regime libico. Si tratta di consistenti interessi delle imprese italiane in Libia: grandi appalti, forniture di materie prime, maxi-commesse che rischiano di restare congelati a lungo, o anche di finire in altre mani. Fino a poche settimane fa, sull'asse Tripoli-Roma, in entrambi i sensi di marcia, hanno viaggiato infatti denaro e opportunità di sviluppo.

- Dati Sistema: la Libia si colloca al quinto posto nella graduatoria dei Paesi fornitori dell'Italia, con il 4,5 per cento sul totale delle nostre importazioni, mentre il nostro Paese rappresenta il primo esportatore, che ricopre circa il 17,5 per cento delle importazioni libiche, con un interscambio complessivo stimato nel 2010 di circa 12 miliardi di euro. La Libia risulta essere il primo fornitore di greggio e il terzo fornitore di gas per l'Italia. L'importanza che il mercato libico riveste per il nostro Paese è dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di oltre 100 imprese italiane.
- ENI: è il principale operatore internazionale nell'estrazione del petrolio e del gas nel paese nordafricano. A preoccupare c'è l'impatto diretto sul fatturato del gruppo e anche il timore generale del balzo del prezzo del petrolio, in particolare per l'attività di raffinazione. Sia gli esponenti libici che i vertici dell'Eni hanno comunque ribadito per ora una reciproca 'amicizia'. Tripoli ha confermato tutti i contratti anche dopo l'inizio della guerra civile. Il gruppo guidato da Paolo Scaroni, per altro, paga al governo di Tripoli anche una tassa del 4% sugli utili imposta alle compagnie petrolifere. Un onere che per la società italiana, che è in Libia dai tempi di Enrico Mattei e ha una presenza assicurata fino al 2045 grazie al rinnovo delle concessioni, ammonta a 280 milioni di euro l'anno.
- UNICREDIT: sotto i riflettori, da mesi, c'è la partecipazione libica nella banca di Piazza Cordusio. Tra gli azionisti ci sono la Central Bank of Libya (4,988%) e Libyan Investment Authority (2,594%). Sommando le due quote la componente libica è il primo azionista, oltre il 7,5%. Quota che, come tutte le altre detenute dai libici in società europee, è al momento congelata.
- FINMECCANICA: Lybian Investment Authority detiene anche una quota del 2,01 per cento in Finmeccanica. Grazie alla collegata Ansaldo Sts, la società guidata da Pierfrancesco Guarguaglini ha una buona presenza in Libia. Nel luglio del 2009, Finmeccanica e Libya Africa Investment Portfolio, il fondo di investimento posseduto da Lia, hanno costituito una joint venture paritetica per una cooperazione strategica nei settori dell'aerospazio, trasporti ed energia. Inoltre, Finmeccanica si è aggiudicata numerosi contratti in Libia attraverso le sue controllate, come Ansaldo Sts e Selex Sistemi Integrati. Nel campo elicotteristico, AgustaWestland ha messo in piedi un sistema industriale di manutenzione e assemblaggio tramite la Liatec. Si calcola che le commesse di Finmeccanica in Libia ammontino a circa 1 miliardo di euro nei settori dell'elicotteristica civile e ferroviario.
- IMPREGILO: altrettanto presente in Gran Jamahiria è Impregilo. E' impegnata attraverso una società mista (Libco) partecipata dalla multinazionale italiana al 60% e al 40% da Libyan development investment. Impregilo ha ordini che si aggirano, complessivamente, attorno al miliardo di euro.
- AUTOSTRADA DELL'AMICIZIA: la maxi infrastruttura chiesta dal colonnello Gheddafi come riparazione per i danni subiti nel periodo coloniale. Con i suoi 1700 km che dovrebbero attraversare la Libia da Rass Ajdir a Imsaad, ovvero dal confine con l'Egitto a quello con la Tunisia, è la più imponente e impegnativa infrastruttura stradale mai realizzata da aziende italiane, con tempi di lavoro stimati fino a vent'anni e una spesa di 3 miliardi di dollari.
- ALTRE PARTECIPAZIONI LIBICHE: si può ormai definire 'storica' la presenza libica nella Juventus, di cui la Libyan arab foreign investment company detiene ancora una quota pari al 7,5%. - ALTRE IMPRESE ITALIANE: l'elenco delle imprese che fanno affari in Libia comprende anche Telecom e Alitalia, Edison e Grimaldi, Visa e Saipem.

V.V.


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