Teatro ABC: Ornella Muti vuol rubare la scena. La governante può scandalizzare ancora?

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di Giuseppe Stefano Proiti

 

È finito il tempo delle prove: si entra nel momento dell’azione. Riflettori puntati stasera – quattro repliche siciliane nel weekend e poi in giro la prossima stagione nei teatri più prestigiosi d’Italia – al Teatro ABC di Catania per il debutto de “La Governante”. Impossibile non “indagare” lo sguardo ammaliante di Ornella Muti e la disinvoltura del padrone di casa (Platania) Enrico Guarneri.
Sorge spontanea la domanda: questa commedia, scandalizza ancora?
Non lo sappiamo. Di certo, gli attori protagonisti assieme a Nadia De Luca, Rosario Marco Amato, Caterina Milicchio (nel ruolo di Elena) Turi Giordano, Naike Rivelli, Rosario Minardi (nel ruolo di Bonivaglia), Salvo Manciagli, Dora Argento, Massimiliano Pace, c’hanno messo tanta passione nel montare le scene di una pièce teatrale che non può apparire scontata: dev’essere necessariamente rivisitata.
<<Ammetto di fare fatica – dichiara a La Sicilia una Muti moderna a tutto tondo – nel calarmi in un personaggio in cui non mi riconosco, che ha avuto in passato interpretazioni molto da “governante”, austriaca. E quella secondo me, è la maniera più scontata. Le metti un vestito severo, le tiri i capelli e vai. Io non credo, anzi sono sicura che il regista Guglielmo Ferro non voglia questo e ho parlato con lui per arrivare a dare la mia anima al personaggio, che per me è scomodo in sé stesso. Se agisce male sta agendo male in primis con sé stessa, contro i suoi principi.
Queste affermazioni hanno una portata decisamente nuova rispetto alla già scottante novità che infuocò i giudizi verso colui che negli archivi de La Repubblica (2012) viene definito come un “bastian contrario, spregiudicato e moralista, che nell’italietta clericale e bacchettona degli anni ’50 metteva in scena per la prima volta le pulsioni lesbiche.”
Dunque si fa un bel passo avanti. Perché? Perché “La Governante”, con tutti gli slanci possibili e immaginabili dell’autore, è comunque figlia del suo tempo. La calvinista Caterina non ha altra via d’uscita da quel corto circuito calunnia-rimorso: il suicidio.
Oggi aspettiamo che esca un “atteggiamento nuovo” dall’anima, seppur soccombente, ma danzante, di Caterina. Ciò varrebbe ad aprire spazi nuovi di riflessione sul tema della fragilità e sulla “eziologia” della condizione di subordinazione della donna rispetto all’uomo, che l’autrice rintraccia non nella diversa natura ontologica bensì nella diversa educazione riservata alla prima. All’uomo, invece, è concesso per natura il lusso di essere sfrenatamente libertino, senza dover subire il giudizio del costume sociale. È a questi scenari che si rivolge chi sceglie di rispolverare quegli aspetti che analizzò sagacemente Mary Wollstonecraft nei suoi libri, sempre rimasti nell’ombra, con troppa polvere addosso, ma che le fecero conquistare un posto nella galleria delle antesignane del femminismo. Termine che per l’esattezza venne coniato solo alla fine del XIX secolo.
La sua storia intellettuale è imbevuta di azione e parte dal sapore della rivendicazione sociale:

“È evidente dalla storia di tutte le nazioni, che le donne non possono essere confinate a occupazioni semplicemente domestiche; se la loro mente non si apre a campi di azione più vasti, esse non saranno in grado di adempiere ai doveri familiari e, tenute nell’ignoranza, diventeranno in pari misura le schiave del piacere degli uomini. Né possono essere escluse da grandi imprese.” (A Vindication of the Rights of Woman: with Strictures on Political and Moral Subjects)

Siamo nel  XVIII secolo, e tra il popolo della Rivoluzione francese e lei, non c’era alcuna differenza. Diritti degli uomini (che Mary esemplificava sotto forma di lettera indirizzata al conservatore-reazionario Burke: A Vindication of the rights of Men) e diritti delle donne si univano in una speranza comune: la conquista dei moderni diritti civili, che in buona sostanza significava conquista del diritto “repubblicano” alla vita.

« È tempo di compiere una rivoluzione nei modi di esistere delle donne – è tempo di restituire loro la dignità perduta – e fare in modo che esse, come parte della specie umana, si adoperino, riformando se stesse, per riformare il mondo. »
(Mary Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman, 1792)

Eh già… quanta rivoluzione bolliva nel sangue della Wollstonecraft! Si badi: 160 anni prima di Vitaliano Brancati. Così oggi non ci basta chi aveva osato tanto, andando oltre Boccaccio, il Marchese de Sade, Saffo, i poeti arabi, non ci basta quel fustigatore  delle ipocrisie borghesi e dei chicchirichì gallistici che nel 1952 finì nelle fauci censorie.

“Nella mia ingenuità, queste mi parvero preoccupazioni esagerate e addirittura polemiche. Risposi che non avevo il minimo dubbio sulla possibilità di ottenere il permesso di rappresentazione per la mia commedia.

Con questa fiducia presentai alla Commissione di censura le due copie d’obbligo. Dopo un’attesa di mezz’ora in un corridoio del Palazzo di Via Veneto, fui ricevuto da una graziosa signora che stava in piedi dietro un tavolo, col rossetto in una mano, lo specchio nell’altra e due bambini appesi alla gonna. Ella fu molto gentile e mi disse che io avevo il diritto di conoscere, entro sette giorni, la risposta della Commissione di censura. (…)

Dopo un mese e mezzo, mi recai io stesso nel palazzo di Via Veneto. La signora mi accolse con una gentilezza afflitta. Mi guardava, con la testa leggermente piegata a destra e in avanti e non diceva nulla. Finalmente aprì le mani e mi disse che la Commissione di censura, a grande maggioranza si era pronunziata per il no.

Ecco… ecco la verità sbattuta in faccia. Quella che fa urlare al frequentatore della casa romana del Platania, lo scrittore Alessandro Bonivaglia, cosa sia la moralità:
<<La moralità italiana consiste tutta nell’istituire la censura>>.
Ma il fatto che qualcosa sia così sfacciatamente dichiarata nella forma non impedisce di andarla a cercare nella sostanza, spesso nascosta: “La commedia è tutta incentrata sulla calunnia piuttosto che sull’amore tra le due donne. Il tema è l’ipocrisia, ma l’unica speranza è la verità” (Antonia Brancati).

Vitaliano: “Dunque, commissaria, la commedia è proibita?’.
‘C’è ancora una speranza’ e rivolse gli occhi verso il soffitto. Non capivo se alludesse a un miracolo celeste.
‘Speranza in che senso?’.
‘Abbiamo mandato la commedia in alto…’.
‘Dove? Non capisco’.
‘… Molto in alto’.”

In effetti, la virtù si manifesta sotto una specie eterna. Ecco il primo vero dramma: sbattere contro il muro della verità. Un ostacolo da sempre insormontabile per entrambi i sessi. E dover fare i conti con qualcosa di irremovibile mette in imbarazzo, spaventa, fa retrocedere anche il re della Sicilia baronale: Leopoldo Platania, memore delle ingiustizie perpetrate ai danni di Jana, e della tragedia della figlia, è disposto a perdonare Caterina.
Come ricorda Anna Proclemer: «Forse i censori si fermarono all’apparenza di certi fatti narrati e non seppero o non vollero vedere che si trattava di una delle commedie più morali del teatro moderno. Sì, perché io credo che sia “morale” rappresentare il caso di coscienza di un essere che si dibatte nelle spire di un vizio che “non vuole accettare”. Anche se tutto il mondo intorno, anche se la filosofia stessa sembrano disposti ad assolverla, lei rifiuta di essere perdonata, di essere assolta, di essere liberata dal rimorso. “Vogliono togliermi il rimorso, il mio rimorso, il solo bene che ho nella vita…”, dice ad un certo punto».
La debolezza che traspare da queste parole fa rispuntare il tema della fragilità-dipendenza lanciato in apertura. E ci chiediamo: la donna di oggi come risolverebbe questo conflitto interiore? Con la sudditanza, arrivando persino al suicidio, oppure in termini di indipendenza, compiendo scelte autonome?
Quand’anche non fosse sul versante autolesionistico, la donna ancora oggi soffre fortemente la violenza mentale e fisica dell’uomo, financo all’evento morte. Si pensi allo stigma del femminicidio.
La radice del problema, come accennavamo, è a monte. Dipende dall’educazione e dal paradigma sociale affidato alla donna in una società ancora fondamentalmente maschilista. Non ci si è ancora riusciti ancora a sganciare da quella visione tradizionale dell’universo maschile che da Aristotele a Rousseau pone la donna in condizione subalterna.
La donna, per Rousseau, non è un soggetto che può educare perché la mente dell’uomo è “razionalmente” superiore. Ritornano in lui tutti i topoi della concezione del rapporto uomo-donna ereditata dai greci: il logos, la grande ragione – aveva detto Aristotele – è prerogativa maschile.
La Wollstonecraft non usa mezzi termini; critica aspramente Rousseau – secondo cui le donne <<sono naturalmente interessate a bambole, vestiti e conversazioni puerili>>.
L’educazione – afferma con forza Mary – va radicalmente cambiata: <<oggi alle donne viene insegnato dalla più tenera età che la bellezza è il loro scettro, così che il loro spirito prende la forma del loro corpo e viene chiuso in quello scrigno dorato, ed esse non fanno che abbellire la loro prigione>> .
Rousseau non concepisce che una donna possa essere indipendente, ma pretende di trasformarla «in una schiava tutta civetteria per diventare un più seducente oggetto di desiderio, una compagna più dolce per l’uomo ogni volta che questi desideri svagarsi. Si spinge addirittura ad affermare che la verità e la forza d’animo, le pietre angolari di ogni virtù umana, dovrebbero essere coltivate entro certi limiti, perché per ciò che concerne il carattere femminile, la virtù più importante è l’ubbidienza […] Che sciocchezza!»
«Nell’Èmile si spinge a dire che in tutti i tempi i doveri delle donne consistevano nel piacere agli uomini ed essere loro utili, farsi amare e stimare, render loro piacevole la vita».
Il soddisfacimento del piacere era per la donna – di quei tempi? – l’unico criterio di utile “sociale”. Bisognava rompere questa “spirale”. Capiamo bene come Wollstonecraft, si vide costretta a compiere quel passo fondamentale con la pubblicazione del romanzo della sua vita.
A Vindication of the Rights of Woman è una critica dell’educazione inadeguata che la società riserva alle donne, che vengono rese incapaci di affrontare i più difficili problemi della vita, emarginate «in un ruolo ridicolo e dannoso», come scriveva lei stessa recensendo le Letters on Education with Observations on Religious and Metaphysical Subjects di Catharine Macaulay, una scrittrice da cui Mary ammette di dipendere.
E tanto più questa incapacità aumenta quanto più la figura femminile si fa assalire dall’eccessiva sensibilità. Ella nota che le donne che finiscono per soccombere al dominio della sensibilità vengono «trasportate da ogni soffio dei loro sentimenti», ed essendo «preda dei sensi», non possono più pensare razionalmente. A quel punto è una morte già decretata perché è una morte morale prima che fisica. Tali donne fanno del male a sé stesse e alla società tutta, non contribuendo ad affinarne lo sviluppo civile.
Seguendo questo ragionamento la Caterina di Brancati si sarebbe potuta salvare se solo avesse fatto camminare insieme sentimento e ragione.
Nei due romanzi  Mary: A Fiction (1788)Maria: or, The Wrongs of Woman si critica duramente la “teoria della sensibilità”, tutta intrisa di filosofia morale ed estetica, di quel sentimentalismo che deve essere scalzato perché pregiudizievole ai fini della costruzione di una solida personalità della donna.

Rimane un ultimo aspetto da analizzare. Forse il più moderno. Paradossalmente l’elemento di maggiore novità nella commedia è dato non da chi sta al centro ma di lato. Parlo del disturbatore, dello scrittore, colui che corteggia Elena con l’arte della parola. Bonivaglia ci insegna a valorizzarla nella sua più intima essenza. La seduzione: come reciproco scambio, possibile ma non certo, di qualità umane tramite il frutto di un lavoro personale che sottopone al libero apprezzamento. Col fatto stesso di essere uno scrittore dimostra l’umiltà dell’uomo di voler apprendere tramite il leggere e lo scrivere. Tutto questo si riassumere nel vero significato della scuola, la miglior sede deputata al confronto dialettico fra i due sessi. Per Mary le classi dovrebbero essere miste, in modo che l’educazione segua un modello comune ai due sessi (“On National Education”). Non solo: il confronto in termini di reciproco scambio è utile anche fra diverse classi sociali. Punto centrale degli ultimi due romanzi citati è la seguente ammissione: donne di diversa estrazione sociale possono avere un destino comune, degli interessi comuni, possono lottare per gli stessi ideali, appartenenti all’umanità intera.

D’altronde … historia docet ! Olympe de Gouges non scese dal carro che la conduceva alla ghigliottina. Anzì rincarò la dose dicendo: <<Le donne avranno pur diritto di salire alla tribuna, se hanno quello di salire al patibolo>>.
Bisognerebbe credere illuministicamente nel progresso, indipendentemente dal sesso. E deridere continuamente di Burke, proprio come fece Mary Wollstonecraft:
È già da molto che si è consolidata nella mia mente la convinzione che i consigli sul comportamento e tutti i vari modi di conservare una buona reputazione, inculcati con tanta forza nel mondo femminile, siano veleni insidiosi che, colando sulla moralità, ne corrodono la sostanza. Ombre di tali proporzioni producono falsi calcoli, perché la loro lunghezza dipende dall’altezza del sole e da altre circostanze contingenti”. (Della moralità minacciata da nozioni sessuali connesse all’importanza di una buona reputazione)

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