Sviluppo: il Sud destinato a restare indietro?

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di Carlo Barbagallo

 

Il Sud e la Sicilia in particolare sono destinati a restare “indietro” rispetto al resto del Paese? Sembrerebbe ipotesi vicina (o vicinissima) alla realtà: i dati che puntualmente rileva l’Istat confermerebbero che l’attualità e la prospettiva non mutano rispetto al passato. Non c’è da rallegrarsi, ma sicuramente non c’è da stupirsi.

“Il Mezzogiorno rimane l’unica ripartizione geografica con un saldo occupazionale negativo rispetto al 2008 (-310 mila, -4,8 per cento)”. Si legge nel Rapporto annuale dell’Istat. Quindi il Sud non ha ancora recuperato i livelli pre-crisi. E ancora, al Mezzogiorno la quota di giovani 15-29 enni che non studiano e non lavorano, conosciuti con l’acronimo inglese di Neet, è più che doppia rispetto a quella dell’Italia settentrionale. I Neet seppure in calo, a 2,2 milioni nel 2017, sono ancora il 24,1 per cento, dal 16,7 per cento del Nord al 34,4 per cento del Sud.

 

I “numeri”, però sembrano andare a passo di danza fluttuante, cioè mostrano instabilità periodica, altalenante, tanto da rimanere spesso disorientati. Cosa diceva l’Istat nel suo rapporto del mese di novembre 2017? Che il “numero” degli occupati nel mese di ottobre dello scorso anno è aumentato di oltre 60 mila unità e che complessivamente gli occupati sono 23 milioni e 183 mila. Una quota tanto elevata che fece esultare il premier Paolo Gentiloni, che ha definito questo indice il “più alto da quarant’anni a questa parte”. Quindi secondo gli elementi d’analisi forniti dall’Istat la disoccupazione era scesa per il quarto mese consecutivo: meno 0,2 per cento in tre mesi, meno 1 per cento in un anno, con un tasso che toccava l’11 per cento, mai così basso dal settembre 2012, mentre il tasso di occupazione superava il 58 per cento (58,4, + 0,9 dal 2016). Bisognava, pertanto, essere più che soddisfatti ma, come sempre accade nelle cose cosiddette “belle”, la medaglia presentava due facce, e l’altra “faccia” di questa ottimistica visione della situazione occupazionale in Italia era che questa crescita occupazionale si presentava “a termine”. Come dire, che anche se risultavano 450 mila occupati in più (pari al 18,3 per cento) andavano considerati “precari” essendo i loro contratti “a termine”, cioè con una occupazione “temporanea” che riproponeva il vecchio detto del “doman non c’è certezza”.

E così la realtà ripropone condizioni note, che i “numeri ballerini” non sono in grado di cambiare essendo le “costanti”, come detto, “fluttuanti”.

L’Istat rileva ancora: se si sommano le persone che nel 2017 erano disoccupate con le forze lavoro potenziali, ovvero coloro che sono disposti a lavorare ma non cercano attivamente impiego o non sono immediatamente disponibili, si arriva a poco più di sei milioni di individui, in calo rispetto ai 6,4 milioni del 2016. Le persone in cerca di occupazione nel 2017 erano 2,9 milioni con un calo di 105.000 unità sul 2016 (tasso all’11,2 per cento). Le forze lavoro potenziali nell’anno erano 3,13 milioni con un calo di 213.000 unità sul 2016.

Numeri e statistiche finiscono con il delineare un quadro incerto, dove le certezze riguardano gli stati di arretratezza: il Sud e la Sicilia sono sempre lì che attendono le possibilità di un “risveglio” dello sviluppo. Le condizioni della politica “governante” sul piano nazionale e sui piani regionali offrono poche speranze sul “risveglio”, e ciò nonostante le enormi potenzialità che i territori del Sud offrono. Alla fine resta sempre l’interrogativo: che fare per spezzare il trend negativo e dare effettivamente una svolta positiva alle collettività? Una risposta probabilmente verrà dalle elezioni del prossimo 10 giugno per il rinnovo di amministrazioni locali: dalle urne, infatti, potranno scaturire indicazioni che la politica (anche sul piano nazionale) dovrà prendere atto. Volente o nolente.

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