“Passo dopo passo”. L’estinzione dei poeti

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di Salvo Zappulla

 

 

C’è ancora spazio in questo mondo per i poeti e i sognatori? C’è ancora spazio per fermarsi a riflettere? Contemplare un tramonto?  Un’alba?  I tempi incalzano, consumano freneticamente la materia impalpabile della vita con la stessa intensità di una catena di montaggio azionata a tutto regime. Solo adesso ci si accorge di quanto affannoso sia correre dietro agli ingranaggi perversi di questa società. I figli dell’era della velocità, i supervitaminizzati, i superconcentrati si fanno largo a gomitate. Baldi giovani che non si arrestano di fronte a nulla incedono a passo di carica. Il tempo di tergersi il sudore dalla fronte e via, si riparte di corsa. Siamo immersi nel frastuono e nella fretta. E mentre tutti corrono incontro a un incerto futuro, il Poeta, che è proteso in avanti, volge lo sguardo all’indietro, si sofferma, indugia, procede “Passo dopo passo”. Leggendo e gustando l’ultima silloge poetica di Sebastiano Burgaretta (Passo dopo passo, edita da Algra editore) facevo queste considerazioni. Una vita, quella di Sebastiano, spesa alla ricerca del Bello, dello studio: la letteratura, l’antropologia, l’etnografia. Vincitore di numerosi premi (ricordiamo, tra gli altri, due volte il Vann’Antò), forse nemmeno cercati, nemmeno voluti -penso- conoscendo la sua riservatezza.  Poeta, saggista, narratore, uomo di profondo pensiero, non si ferma alla superficie delle cose, ma scava, indaga alla ricerca febbrile del Sapere. Quello di Sebastiano è un incedere esistenziale che abbraccia la vita terrena e quella spirituale. E mi domando da dove trae origine la sua forza, la pregnanza delle sue liriche. Gioca con maestria assemblando lingue straniere: lo spagnolo, il greco con il latino e il dialetto siciliano, creando un’armonia di parole, quasi fossero note di un’orchestra universale che vuole abbracciare il mondo nella sua interezza, a simbolo di fratellanza (Jean-Paul Manganaro nella prefazione al libro parla di “Capriccio schumanniano”).  Sicuramente una grande fede lo sorregge, la stessa che lo ha portato in Terrasanta, nel suo farsi viandante, per tastare con mano le ferite di questo territorio martoriato, ripercorrere, passo dopo passo, i sentieri della storia del cristianesimo, raccogliere con mano umile il sudore e il sangue versato da Gesù Cristo, le ferite e lo scempio causati dalla scelleratezza umana. Una croce t’è data, non gettarla, /la voce che reitera nel tempo. /Ora riconosci il passo amaro, /memoriale profezia che si colma, /oracolo paterno in fondo al cuore. /Il vaso d’elezione ti soccorre, /passo dopo passo dentro e fuori, /passo dopo passo sulle impronte /della grazia che vive quotidiana.  Leggendo le liriche di Sebastiano mi vengono in mente Primo Levi e García Lorca, la consapevolezza che l’uomo è niente senza quello che gli sta attorno. Traspare una sorta di rimpianto in questi versi, la sensazione di momenti perduti lungo il percorso della vita, come se Burgaretta volesse avocare a sé l’incanto e serrarlo dentro la fortezza della propria memoria. La poesia come strumento di relazioni sociali, angolo di visuale privilegiato, dimensione e chiave di lettura tesa a individuare la peculiarità e la natura pluridimensionale dell’anima che l’ha concepita. Uno spazio temporale minimo, destinato a usurarsi in fretta nella vastità dei secoli. Una sorta di crepuscolo che conduce a quel senso di ineluttabile tempesta che è tipica di chi scava dentro se stesso.  La poesia e il suo soliloquio. Il poeta e la sua unicità. Il poeta e la sua solitudine impossibile da scalfire. Sebastiano in questa raccolta segna il passo del suo cammino, quasi fosse arrivato il momento di fare un bilancio del proprio vissuto. Tracce affidate alla memoria, alla memoria del rimpianto, alla memoria di questo compendio di stati d’animo profondamente vissuti e sofferti. Il cielo s’accompagna grigio amaro /ai pensieri che corrono lontano, /oltre la schiera di colli desueti. /Nuovi i profili, nuove le cadenze /in questa noncuranza di colori /che timidi tentennano all’intorno, /ma il passo in interiore è sempre uno. Considerazioni personalissime, un caleidoscopio di emozioni e sensazioni che coinvolgono il lettore. La sua è sofferenza autentica, un urlo silenzioso che si leva dall’anima. Attraverso le sue liriche sembra voler chiedere perdono per il male causato dagli uomini ai fratelli, alle creature indifese, al loro stesso Creatore. Consapevole però che la capacità di redenzione lava le colpe, induce alla speranza.

C’è ancora spazio in questo mondo per i poeti e i sognatori? Io credo che ne siano la linfa vitale, l’antidoto per proteggerci dal materialismo gretto e cinico. Platone sognava uno stato ideale in cui a governare fossero i filosofi. Noi ci auguriamo un mondo intriso di poesia, di cantori in grado di vedere oltre, di raccogliere le sofferenze degli ultimi, di avviare una rivoluzione pacifica.


INTERVISTA A SEBASTIANO BURGARETTA

 

Caro Sebastiano, cosa vuol dire essere poeti, oggi, in questo mondo sempre più spietato?

Non è facile dare una risposta precisa e, come dire, esaustiva a questa domanda. Proprio perché, come dici tu, viviamo in un mondo sempre più spietato, occorre recuperare e mandare in giro segnali di “pietas”, di segnali, cioè, che convergano verso il recupero della dimensione autenticamente umana, cui aspiriamo e alla quale perciò è necessario che siano convogliate le nostre energie. La poesia ci può aiutare in questa ricerca. Del resto la vita stessa è ricerca, è per sua natura movimento di crisi permanente e continua, di attenzione al discernimento di ciò che ci può far crescere nella vita di relazione, quella per cui siamo fatti. Nessun uomo è isola. È, invece, parola vivente, parabola nel senso etimologico del termine, ponte cioè tra sé e gli altri.

I poeti hanno forse la responsabilità di tenere sveglia la coscienza propria e quella del prossimo circa l’importanza di questa relazione vitale, servendosi degli strumenti adatti a coltivare, esprimere e comunicare bellezza, bontà e verità, valori che sono in sé la stessa unica cosa, nessuno dei tre potendo sussistere isolatamente. La sintesi di essi del resto è la libertà, cioè il valore primordiale per l’uomo, quello che testimonia l’immagine e la somiglianza della creatura con il creatore. La libertà dunque è lo stigma della poesia, ed essa va “criticamente” cercata, vissuta e cantata. Tutti gli uomini possono fare ciò, perché, come disse García Lorca, è imprudente vivere senza poesia, anzi, secondo Franco Loi, è addirittura impossibile. Ai poeti, poi, che trasferiscono sulla pagina questa ricerca critica di libertà è affidato, per dono, lo strumento musicale con cui partecipare attivamente a quello che, nonostante tutto, dovrebbe essere un armonico concerto esistenziale e relazionale per tutti.

Tu hai ricevuto riconoscimenti prestigiosi per i tuoi scritti. So che sei molto restìo, ma penso sia giusto farli conoscere ai nostri lettori. Ce ne vuoi parlare?

Sarei un ipocrita e un ingrato, se dicessi che non mi interessano i premi. Sì, ne ho ricevuti diversi, e non mai cercati. Ne sono grato a chi me li ha dati, ma devo ammettere che essi non sono in cima ai miei pensieri. Fanno parte di una dimensione che, almeno per me, non ha a che fare con il momento interiormente creativo e relazionale della poesia, sì, piuttosto, con quello esteriore e sotto certi aspetti “commerciale”, in senso ampio ovviamente, momento, questo, che a me non interessa e che, fortunatamente, per vari motivi non intacca il versante letterario della poesia, come invece succede con la prosa. Mi basta aver fatto da mediatore alla voce che mi parla dentro, e tutt’al più leggere, se ce ne sono le condizioni, qualche verso in pubblico, perché credo che la poesia dovrebbe essere veicolata, come fu alle sue origini, dal suono della viva voce e dal ritmo musicale che ne è parte integrante.

Un premio comunque voglio ricordare, perché mi sembra particolarmente significativo in ordine alla visione che ho della poesia: il Premio speciale Leonforte per la personalità siciliana, che nel 1996 volle consegnarmi Carlo Muscetta con la motivazione, da lui personalmente dettata, che diceva: “Per aver contribuito con la sua opera alla nascita di una Sicilia alternativa”.

Poesia e spiritualità, cosa li accomuna?

La poesia, per sua natura, vive della e nella dimensione dello spirito. Infatti poesia e preghiera, quando sono autentiche, sono sovrapponibili, perché scaturiscono dalla medesima fonte. Da Dante alla nostra contemporanea Rosaria Lo Russo apprendiamo che la poesia è dettato d’Amore, un dettato cui il poeta è chiamato a rispondere in atteggiamento di ascolto obbediente, dopo aver fatto silenzio dentro e fuori di sé, per lasciar parlare liberamente la voce del Dittatore Amore. Nella preghiera accade la stessa cosa, se ovviamente essa viene intesa non solamente come recitazione di formule ma come atteggiamento di vita plasmato sull’ascolto attento e obbediente, di sé nell’alterità, previo il silenzio totale. In questo senso la preghiera è ascolto della voce, che per prima ci chiama, come avviene tra Elì e Samuele. È Dio che fa il primo passo, che detta la chiamata d’amore. Come per la poesia perciò è lo Dittatore Amore a soffiare nell’animo del poeta, il quale, dice l’Alighieri, va notando, così nella preghiera è lo Spirito divino a parlare all’uomo orante. E come tutto può diventare preghiera, respiro di vita del quale non potere a fare a meno, così tutto può trasfigurarsi in poesia. Nella preghiera e nella poesia tutto si rivela per quello che essenzialmente è, cioè, come ho detto, dono di bellezza, bontà e verità, un dono che rende gli uomini intrinsecamente innocenti e positivi, cioè creativi e puri, capaci di vivere a contatto con il fango e di non insozzarsi, di passare in mezzo al fuoco e di non bruciarsi. Ne viene fuori la conferma di quella verità secondo cui nella poesia e nella preghiera etica ed estetica finiscono per coincidere.

Quanto è importante la conservazione della memoria?

Senza la memoria, la sua conservazione e il suo sviluppo non si può vivere. La vita di per sé stessa è memoria, poiché si forma e si trasmette nel tessuto creativo di quanto ci è stato consegnato, sin dal momento della nascita e forse anche prima, in affetti e sentimenti, in cure, in parole, in atteggiamenti, in opere, in esempi, in insegnamenti, in letture e in tanto altro. Noi siamo figli di tutto questo patrimonio, che, trasmessoci, si sedimenta, per induzione, in noi e ci permette di capire, discernere, decidere in quale direzione, attiva o passiva, positiva o negativa, creativa o distruttiva, orientare le nostre scelte quotidiane.  Da ciò dipende il nostro stesso equilibrio personale, la nostra misura di vita, la nostra capacità di rapportarci al prossimo e di essere, quindi, parola viva e produttiva. Lo sa bene la letteratura, che, per sua natura, è memoria, come a ragione era solito ripetere Vincenzo Consolo. Niente di nuovo, infatti, sotto il cielo della letteratura, se non questa capacità, per narratori e poeti, di rielaborare il tessuto storico-memoriale ereditato, fatto proprio, vissuto, assimilato attraverso gli strumenti in dote alle persone più attente, sensibili, disponibili all’ascolto, e infine riproposto in base ai nuovi contesti storici e alle esperienze personali degli autori. Perciò, paradossalmente ma effettivamente, niente di nuovo ma al tempo stesso sempre tutto nuovo nella letteratura, sempre costantemente vivo e arricchito il corredo memoriale, sia quello storico sia quello personale, e sempre rinnovata e stimolante l’esperienza degli uomini tutti e, in particolare, dei letterari.

Dove sta andando questa società che corre frenetica verso un futuro all’insegna dell’informatica?

Bisognerebbe essere indovini per saperlo. È chiaro tuttavia che alcuni indizi lasciano presagire delle novità, che però non saprei se definire positive o negative. Se, ci si attesta su posizioni, più o meno rigide, di timore e/o di acritica difesa dell’esistente e di quanto ci dà sicurezza immediata, siamo conseguentemente portati a vedere poco chiaro davanti a noi. Se invece ci si sforza di accettare quanto di positivo le novità apportano insieme con il negativo che potrebbe potenzialmente celarvisi, se si dà fiducia alle capacità costruttive e alle risorse creative dell’uomo, che storicamente sappiamo sempre capaci di rinnovarsi e adattarsi ai tempi e alle situazioni nuove, allora anche la nostra intuizione del futuro si fa meno nebulosa e scoraggiante. È l’eterno dilemma che ha sempre, nella storia dell’uomo, presentato il discrimen storico nel dovere scegliere, in epoche di transizione caratterizzate dalla paura del futuro ignoto, tra conservazione e acritico ripiegamento sulla tradizione, da una parte, e atto di fiducia nelle risorse dell’uomo e quindi di speranza, dall’altra. Per me le due alternative si configurano come un tornare indietro verso l’atrofizzazione e la morte, l’una, un andare verso la ricerca, per quanto difficile, e la vita, l’altra. Per questo il futuro, come insegna la storia, non deve farci paura. Credo, infatti, che l’uomo, nonostante i forti condizionamenti indotti e le contraddizioni in cui oggi si trova a vivere, riuscirà anche in futuro a trovare una via di sopravvivenza e di equilibrio che gli permetterà di andare avanti. È sopravvissuto ad altre innovazioni tecnologiche, che ai loro tempi apparivano pericolose, saprà sopravvivere anche ai rischi, che pure sono fortissimi, paventati dall’uso, in molti casi scriteriato, che oggi si fa dei mezzi informatici.

Come immagini un mondo ideale?

Non lo immagino, perché so che esso non può esistere. Possiamo tendere con tutte le nostre forze verso un mondo ideale, ma dobbiamo sapere che i nostri tentativi resteranno sempre un’utopia, per fortuna. Ciò, a causa delle fragilità e delle debolezze dell’uomo. Sarebbe noiosissimo, del resto, un mondo ideale. Penso, infatti, che esso sancirebbe la fine della libertà dell’uomo, quella che, come ho detto, ci rende unici e sempre pienamente autonomi, intatti nella nostra dignità umana. Il creatore stesso, pur di rispettare questa nostra libertà, che ci rende simili a lui, si è messo nelle mani dell’uomo, persino permettendogli di mettere in croce il suo inviato.  All’uomo, che è libero, è dato di vivere, scegliendo, giorno per giorno, passo dopo passo, in assoluta autonomia, all’interno di quella che il Machiavelli definisce realtà effettuale, cioè nel qui e nell’oggi in cui, per dirla con un altro fiorentino illustre, si parrà la nostra nobilitate.

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