Gerusalemme Capitale, atto dovuto degli USA a Israele

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di Valter Vecellio

 

Trump ha formalizzato il “Jerusalem Act” e dato seguito un mandato di legge del 1995, e che tre presidenti prima di lui avevano evitato di compiere, nonostante fosse una loro precisa promessa elettorale. Aver riconosciuto Gerusalemme capitale significa assicurare a Israele quello che più considerano vitale: la propria identità ebraica. Ma la pace? E’ possibile sperare che Trump abbia un piano?

E sarà certo un caso, ma mentre scrivo, intorno alla mezzanotte ora italiana e le agenzie riferiscono dei disordini in Israele e dintorni, in testa mi “balla” la canzone di Francesco De Gregori, quella del capitano coi muscoli “tutti di plastica e di metano./Guardalo nella notte che viene,/quanto sangue ha nelle vene./Il capitano non tiene mai paura…”. Un capitano che “fuma la pipa, in questa alba fresca e scura,che rassomiglia un po’ alla vita. E poi il capitano, se vuole, si leva l’ancora dai pantaloni e la getta nelle onde e chiama forte quando vuole qualcosa, c’è sempre uno che gli risponde…”.

Un capitano che guida e comanda una nave che “fa duemila nodi, in mezzo ai ghiacci tropicali, ed ha un motore di un milione di cavalli che al posto degli zoccoli hanno le ali”. E poi c’e’ un mozzo che avvista un gigantesco iceberg che viene dritto dritto; e il capitano risponde, calmo:  “Giovanotto, io non vedo niente. /C’è solo un po’ di nebbia/che annuncia il sole./Andiamo avanti tranquillamente”.

Il presidente USA Donald Trump durante il suo discorso sul riconoscimento di Gerusalemme. Alle sue spalle, il vice-presidente Mike Pence

Ecco: avanti tranquillamente. Ti. chiedi: possibile che Donald Trump non abbia immaginato e considerato che trambusto provoca l’annuncio e la decisione che per gli Stati Uniti d’America Gerusalemme è la capitale d’Israele? Per quanto miope, non è possibile che non si renda conto della portata della  cosa. Per quanto possa essere elefante imbizzarrito nel classico negozio di cristalleria, c’è un limite. O no?

Uno scrittore inglese Gilberto Keith Chesteron suggerisce una regola che ognuno (e i giornalisti in particolare) dovrebbe osservare: cercare il bello nel brutto, il buono nel cattivo (e viceversa, ovviamente). Vale a dire: senza essere bastian contrari per principio e programma, comunque non contentarsi della versione ufficiale, dell’opinione dominante e “comoda”, verificare sempre e sottoporre tutto al vaglio della critica. Se ne ricava sempre qualcosa.

Nel caso di Gerusalemme capitale accade questo: Trump ha formalizzato il “Jerusalem Act” e dato seguito un mandato di legge del 1995, e che tre presidenti prima di lui avevano evitato di compiere, nonostante fosse una loro precisa promessa elettorale. Trump insomma (e lo aveva già annunciato nel corso della sua campagna elettorale) ha “semplicemente” fatto quello che aveva promesso di fare. Forse qualcuno sperava e pensava che avrebbe fatto come gli altri tre presidenti: promettere una cosa e non farla. Invece no. Ha mantenuto la sua promessa; il “Jerusalem Act”, votato dal Congresso da buona parte dei rappresentanti dei due partiti, ogni anno è stato rinviato dai presidenti nella sua applicazione pratica per ragioni di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Per Trump queste ragioni non ci sono? Oppure con questa “mossa” cerca di distogliere l’attenzione dai problemi della sua presidenza, dal sempre più imbarazzante affaire del Russia-gate? Può essere. Possibile. probabile. Però si deve anche ricordare che nel giugno scorso, forse credendo di incastrare il presidente rispetto alla sua promessa elettorale, il Senato ha votato 90 a 0 una mozione per obbligare il presidente a mettere in atto il Jerusalem Act.

Ora, quale che possa essere la nostra opinione sulla questione, Trump ha illustrato per la prima volta il suo approccio al Medio Oriente. Tre punti: riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico; soluzione del conflitto israelo-palestinese con due Stati divisi da confini concordati; ruolo prioritario dell’Arabia Saudita per superare la crisi secolare arabo-israeliana.

Scommessa azzardata, una e trina. Aver riconosciuto Gerusalemme capitale significa che gli Stati Uniti assicurano a Israele quello che  più considerano vitale: la propria identità ebraica. Il legame fra gli ebrei e Gerusalemme infatti risale a tremila anni fa. Trump fa sapere ad Israele, ed ai suoi cittadini, di comprendere e condividere il legame storico fra lo Stato ebraico, il popolo ebraico e la terra d’Israele. Una scelta con un risvolto politico-negoziale chiaro:  Trump garantisce a Benjamin Netanyahu ciò che a lui più preme, ma in questo modo getta le premesse per poter porre condizioni  relative alla soluzione del conflitto israelo-palestinese.

A questo proposito Trump mostra di condividere la soluzione dei due Stati; e sottolinea che i confini dovranno essere decisi «consensualmente fra le parti», anche per quanto riguarda Gerusalemme. Pensare che Israele possa accettare che un giorno i quartieri orientali di Gerusalemme possano diventare la capitale del futuro Stato di Palestina appare utopico e ingenuo. Ma utopico 70 anni fa era pensare che poche migliaia di ebrei potessero resistere a milioni di arabi e lo stato d’Israele esistere. Tuttavia e’ accaduto.  Trump ad ogni modo non fa alcun cenno alla riunificazione della città, portata a termine da Israele dopo la guerra del 1967. Affermare che la capitale di Israele è a Gerusalemme non esclude che la stessa città potrà ospitare, a seguito di un accordo di pace, anche quella palestinese.

Trump auspica che ciò avvenga grazie ad un processo fra le parti, senza imposizioni dall’esterno; e fa riferimento a un possibile ruolo dell’Arabia Saudita, che custodisce i luoghi santi dell’Islam. Evidentemente è convinto  che il re Salman e il figlio, principe ereditario Mohammed Bin Salman, siano decisivi per un ruolo di riconciliazione arabo-israeliana che faciliti la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Ed è il terzo azzardo.

Si fa leva sul tradizionale “duello” strategico tra sunniti e sciiti, tra Arabia Saudita ed Iran. Teheran è l’avversario comune di sauditi e israeliani, Washington pensa che ciò possa portare anche alla soluzione dei due Stati.

Vedremo. Per ora si registra la prevedibile condanna da parte dell’Autorità palestinese; la prevedibilissima “nuova” Intifada di Hamas; le minacce, le parole di fuoco di Erdogan e Khamenei; l’ostilità l’irritazione di molte capitali arabe, e di molte cancellerie europee. Tutto da mettere nel conto, e per quanta confusione regni alla Casa Bianca, impossibile che tutto ciò non lo si sia “pesato”. O forse no, siamo noi, inguaribili ottimisti, che azzardiamo che Trump e la sua corte siano in grado di riflettere e pensare?

LA VOCE DI NEW YORK

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