Catalogna: sei Indipendentista? Niente sconti, vai in carcere

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di Salvo Barbagallo

 

Più che prevedibile, era scontato: il governo catalano deve finire dietro le sbarre, cioè in carcere. Più che prevedibile era scontato: il giudice dell’Audiencia Nacional Carmen Lamela ha confermato quanto richiesto dalla Procura e in manette sono finiti già sette componenti del destituito Governo della Generalitat, il vicepresidente Oriol Junqueras e i ministri Jordi Turull (Presidenza), Meritxell Borrás (Goberno), Raül Romeva (Esteri), Joaquim Forn (Interno), Carles Mundó (Giustizia), Dolors Bassa (Lavoro) e Josep Rull (Territorio). Il giudice Carmen Lamela ha inoltre ordinato che gli otto componenti del Governo catalano siano separati e detenuti in cinque prigioni diverse: il vicepresidente Oriol Junqueras e il ministro Joaquim Forn nel carcere di Estremera, Jordi Turull e Raul Romeva a Valdemoro, Josep Rull a Navalcarnero e Carles Mundò a Aranjuez. Dolors Bassa e Meritxell Borras saranno detenute nel carcere femminile di Alcalà. Il magistrato ha motivato il provvedimento con un “rischio fuga” degli imputati, oltre alla possibilità di “reiterazione del reato” e “distruzione di prove”. Risultano “latitanti”, con un mandato di cattura europeo, il governatore  Carles Puigdemont e quattro ministri, Meritxell Borras, Joaquim Forn, Antoni Comin, Dolors Bassa e Maritxell Serret, che da giorni si trovano a Bruxelles. Puigdemont potrebbe costituirsi alla giustizia belga, prima che venga avviato l’iter della richiesta di estradizione.

Lunedì scorso (30 ottobre) da Bruxelles Carles Puigdemont aveva preannunciato le mosse che il premier spagnolo Mariano Rajoy      avrebbe fatto: “alla Generalitat dopo la dichiarazione di indipendenza del parlamento, una serie di dati indicavano che il governo spagnolo stava preparando un’offensiva senza precedenti e anche una denuncia del procuratore che prevedeva pene che potevano arrivare a molti anni di detenzione. Abbiamo sempre voluto la strada del dialogo, ma in queste condizioni questa via non era percorribile (…) Se mi fosse garantito un processo giusto, allora tornerei subito in Catalogna per continuare a lavorare (…). La denuncia del procuratore spagnolo persegue idee e persone e non un reato. Questa denuncia dimostra le intenzioni bellicose del governo di Madrid. Noi non abbiamo mai abbandonato il governo, noi continueremo a lavorare. Non sfuggiremo alla giustizia ma ci confronteremo con la giustizia in modo politico. Alla comunità internazionale, all’Europa chiedo che reagisca: l’Europa deve reagire. Il caso e la causa catalana mettono in questione i valori su cui si basa l’Europa (…)”. Mentre Carles Puigdemont in conferenza stampa pronunciava queste parole, in Catalogna La Guardia Civil spagnola procedeva in perquisizioni nelle sedi dei Mossos d’Esquadra in diverse città sequestrando le registrazioni delle comunicazioni interne durante il referendum del 1 ottobre. Gli agenti spagnoli sono penetrati nel centro di Telecom di Sabadell e nei commissariati centrali di Barcellona, Girona, Manresa, Tortosa e Sant Felu de Llobregat.

Il presidente della Corte Suprema Carlos Lesmes si è espresso in maniera esplicita: “Quando qualcuno non si presenta dopo essere stato citato da un giudice a testimoniare, in Spagna o in qualsiasi altro Paese Ue, normalmente viene rilasciato un mandato d’arresto“. A questa frase nel pomeriggio di ieri (2 novembre) è seguito l’ordine di arresto europeo che porta il suo nome e quello di quattro consiglieri, Antoni Comin, Clara Ponsatí, Lluis Puig e Meritxell Serret).

Più che prevedibile era scontato: migliaia di catalani hanno iniziato a protestare  in tutta la regione davanti ai luoghi di lavoro e davanti al Palazzo della Generalità a Barcellona gridando “Puigdemont è il nostro Presidente”, “Llibertat!”, cantando l’inno di Els Segadors, ò’inno nazionale della Catalogna- Proteste civili, un minuto di silenzio, una denuncia contro il “processo politico” avviato contro il Govern catalano regolarmente eletto e”irregolarmente” destituito.

Più che prevedibile era scontato fare riferimento al Franchismo, a un regime dimenticato da anni, che si ripropone in forma “democratica” di fronte ad una Europa che si mostra “compiacente”, se non “complice” di atti palesemente repressivi,

Giorni addietro, ed anche prima abbiamo espresso le nostre opinioni, seguendo puntualmente la grave vicenda Catalana: dichiararsi oggi “Indipendentista” significa correre il rischio d’essere accusati di “sedizione” e finire in qualche sperduta galera dopo “processi politici” che, appunto, i “democrazia” non dovrebbero trovare asilo.

Per non ripeterci, riproponiamo l’articolo pubblicato il 30 ottobre scorso.


Catalogna come la Sicilia del 1945?

di Salvo Barbagallo

 

La Catalogna di oggi come la Sicilia del 1945? Per certi aspetti sicuramente no, per altri sicuramente sì. Gli aspetti che accomunano le due “regioni” sono quelli che riguardano l’aspirazione di parte (grande parte, piccola parte, poco cambia teoricamente) delle due collettività all’Indipendenza, all’autodeterminazione effettiva dai Governi nazionali dai quali “dipendono”. Le principali diversità fra le due “regioni”: le condizioni temporali e politiche nelle quali l’aspirazione all’Indipendenza e alla effettiva autodeterminazione sono maturate. Ancora. Gli aspetti che accomunano le due “regioni”: la mano pesante usata dai Governi nazionali per “reprimere” quelle che oggi vengono apertamente definite “spinte secessionistiche”.

È inevitabile (almeno per noi) fare riferimento alla Sicilia e ai moti indipendentisti Siciliani degli Anni Quaranta avendo seguito e continuando a seguire gli avvenimenti che hanno caratterizzato e stanno caratterizzando lo “scontro” in Spagna tra il Governo centrale e il Governo catalano retto da partiti indipendentisti, dopo una “ufficiale” e “regolare” indizione di un Referendum finalizzato a far esprimere i Catalani sulla delicata problematica. Non staremo in questa sede a passare in rassegna le motivazioni che hanno spinto la Generalitat catalana a promuovere il Referendum, ma cercheremo di comprendere ciò che ha indotto il Governo spagnolo del premier Mariano Rajoy a usare il pugno di ferro verso il Governo catalano presieduto dal governatore Carles Puigdemont. Nella Costituzione spagnola, in realtà, è ben specificato che l’unità del Paese è intoccabile, così come è ben evidente, con il tanto discusso articolo 155 che è stato applicato, che il destino di chi viola il principio dell’unità è quello di finire in carcere per decenni con l’accusa di “ribellione” e “sedizione”. Il nodo, dunque, non è questo, ma quello che riguarda l’azione “violenta” portata avanti da Rajoy per impedire che il Referendum, che un Referendum indetto da un Parlamento legittimo, un Referendum tutto sommato consultivo venisse svolto. A nostro avviso (ma potremmo essere in errore, e comunque esprimiamo liberamente la nostra opinione) il nodo sta tutto nel modo in cui ha proceduto il premier spagnolo, cercando di stroncare una consultazione con metodi di certo non democratici e procedendo con arresti “politici” discutibili, che riportano alla memoria eventi che si ritenevano archiviati. C’è quasi quasi da ipotizzare (ma potremmo essere in errore, e comunque esprimiamo liberamente la nostra opinione) ad una precisa volontà programmata e preventivata di Mariano Rajoy di usare la mano forte per fare esplodere il “Caso Catalogna” quale lezione da impartire per tutte le possibili ed eventuali spinte indipendentiste che possono affiorare sul continente Europa, e far comprendere che la strada dell’Indipendenza non è percorribile perché verrebbe chiusa prima ancora d’essere aperta. Se così fosse si comprenderebbero gli iniziali silenzi dell’Unione Europea sulla delicata vicenda e, dopo, il complice appoggio dichiarato e incondizionato all’operato di Mariano Rajoy. L’unità di un Paese, insomma, è intoccabile: non importa, poi, se l’unità è solo formale e non sostanziale e se l’aspirazione di una comunità all’autodeterminazione possa essere più che legittima.

Da questo punto di vista, cioè quello della repressione preventiva, quanto è accaduto in Catalogna rimanda alla storia Siciliana degli Anni Quaranta. Una storia la cui memoria è stata scientificamente cancellata, una storia che i giovani non conoscono (probabilmente ignota anche al dem Davide Faraone che chiede l’annullamento dello Statuto Speciale Autonomistico)m, una storia conclusa con violenta repressione e con delitti di Stato. L’Indipendentismo Siciliano contemporaneo (non considerando in questa sede le ragioni storiche di una Sicilia Nazione) si formulò sotto il regime fascista e nacque e crebbe come movimento antifascista, trovando la sua più forte motivazione dopo l’invasione angloamericana dell’estate del 1943. Quasi favorito dagli alleati dopo l’8 settembre, quando le sorti del conflitto bellico ancora erano incerte, venne subito osteggiato (con sistemi polizieschi che ricordavano l’Era Mussoliniana) fino a concludersi con arresti e uccisioni (l’assassinio di Antonio Canepa), e con il forzato compromesso della concessione dell’Autonomia Speciale prima che l’Italia diventasse una Repubblica democratica.

Repressione preventiva: questi i due termini che accomunano, nel tempo di ieri e di oggi, la Catalogna alla Sicilia. Una storia di Sicilia che nessuno ha ricordato anche in questa circostanza. Un storia scomoda che non bisogna riportare alla memoria. Ecco perché l’ipotesi di un Mariano Rajoy che mette in moto una metodologia già sperimentata non appare tanto peregrina…

Guai a parlare di Indipendenza. Guai a parlare di autodeterminazione. Si finisce in galera.

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