Nel silenzio la fuga all’estero dei “cervelli” italiani

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di Valter Vecellio

 

Non ci sarebbe nulla di male se chi, da giovane, va all’estero e così si arricchisce di nuove esperienze e nuovi “saperi”. C’è però un problema: se si analizzano i dati sull’evoluzione degli espatri degli ultimi anni emerge che non solo aumentano le partenze, ma diminuiscono i rimpatri! L’ultimo appello dei ricercatori pronti a fuggire dall’Italia

Giorni fa un’agenzia di stampa italiana, l’“AdN Kronos”, incrocia una serie di dati ufficiali ricavati da un certosino spulciare dei dati contenuti nei rapporti dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), del Centro Studi Investimenti Sociali (CENSIS) e dell’Anagrafe italiani residenti all’estero (AIRE). Se ne ricava uno studio interessante, che induce a qualche amara riflessione.

Il dato, clamoroso, che balza agli occhi, è il boom di “cervelli” che negli ultimi dieci anni sono stati costretti, per una ragione o per l’altra, ad “emigrare”. Gli italiani che, alla data del 1 gennaio 2016 vivono all’estero, sono 4,8 milioni. Dieci anni fa erano 3,1, un aumento del 54,9 per cento.

Una volta meridionali o veneti, con la valigia di cartone, a sudarsi pane e fortuna in Canada, Stati Uniti, Sud America. Oggi? L’identikit fornito da “AdN Kronos” rivela che i nuovi “emigrati” non sono solo “braccia”; gli italiani che vanno all’estero, hanno conseguito quasi sempre un titolo di studio universitario, e la maggior parte riesce a farne buon uso. L’89% ritiene il tipo di contratto di lavoro adeguato al titolo di studio; inoltre il tipo di impiego svolto, nel 72,2% dei casi, è permanente. La metà circa di questi “emigrati” (il 53,8 per cento, 2,5 milioni) risiede in paesi europei. Un buon 40,6 per cento (1,9 milioni), trova “ospitalità” in America.

Non ci sarebbe nulla di male, se chi, da giovane, va all’estero e così si arricchisce di nuove esperienze e nuovi “saperi”. C’è però un problema: se si analizzano i dati ISTAT sull’evoluzione degli espatri nel periodo 2005-2014 emerge che si passa da 41.991 unità a 88.859 unità, con un incremento del 111,6 per cento. Nello stesso periodo i rimpatri sono diminuiti del 21,6 per cento passando da 37.326 del 2005 a 29.271 del 2014. Il saldo, cioè la differenza tra chi parte e chi torna, era negativo per 4.665 unità nel 2004; ed è arrivato a -59.588 unità nel 2014, con un incremento del 1.177,3 per cento. La conclusione è che l’incremento degli italiani emigrati non è dato solo dall’aumento di chi parte, ma anche dalla riduzione di chi torna.

Attualissimo, a questo punto un documento-appello già sottoscritto da un migliaio di ricercatori e dottorandi al presidente del Consiglio e al Governo, che mi permetto di “volantinare”:

“Noi ricercatori precari, assegnisti di ricerca e dottorandi, ci rivolgiamo al Governo per chiedere il rispetto della nostra dignità di lavoratori, dei nostri diritti, della nostra passione. Da anni intere generazioni di ricercatori sono vittime delle scelte più scellerate della politica. Il blocco delle assunzioni di ricercatori ha determinato il ricorso sempre più frequente a contratti precari, a basso costo e con scarse tutele. La riforma Gelmini ha generato un’Università povera e ineguale, dove le opportunità si concentrano in poche aree del Paese, mentre intere regioni vengono abbandonate al proprio destino. Pochissimo si è fatto sul fronte della valorizzazione della ricerca nel sistema imprenditoriale e produttivo italiano. In altre parole, i tagli alla ricerca sono diventati tagli al futuro del nostro Paese. Il reddito dei ricercatori precari è basso, in alcuni casi addirittura al di sotto del minimale retributivo previsto per la Gestione Separata, come certifica anche l’INPS. A dispetto di questo, in questi anni il Governo ha scientemente escluso i precari della ricerca da ogni ammortizzatore sociale e da ogni misura di sostegno al reddito, rifiutando di ascoltare i ricercatori che, uniti nella campagna nazionale #perchénoino?, hanno raccolto nel 2015 oltre 10.000 firme per l’estensione della misura a tutti i precari della ricerca. Eppure anche noi versiamo i contributi alla Gestione Separata INPS. Eppure anche la ricerca è lavoro. Quello che vi chiediamo è davvero molto semplice: rispettate le vostre promesse e rispettate il nostro lavoro. Chiediamo che il Governo confermi l’impegno del Ministro Poletti e faccia in modo che nel DDL in discussione alla Camera, e in questi giorni all’esame della Commissione Lavoro, sia inclusa una misura strutturale, facilmente accessibile, in grado di garantire l’indennità di disoccupazione anche a tutti coloro che sono stati finora esclusi ingiustamente, come i precari della ricerca. Chiediamo il diritto all’indennità di disoccupazione perché vogliamo veder riconosciuto il nostro lavoro come tale; perché non intendiamo più accettare discriminazioni tra lavoratori; perché crediamo che tutti i lavoratori abbiano diritto a tutele fondamentali a prescindere dal contratto e dal settore in cui operano. Chiediamo al Governo di riconoscere a tutti noi la dignità del nostro lavoro, chiediamo di garantire una continuità di reddito ai ricercatori precari. Quale che sia il nostro futuro, nessuno di noi è disposto ad aspettare ancora per vedere riconosciuti i propri diritti. La ricerca è lavoro!”.

Questi “cervelli”, questo “sapere” chiede “solo” di poter lavorare in Italia con dignità, senza mortificazione. Chiede di essere messa in condizione di non dover “espatriare”; chiede di poter aiutare questo Paese a riprendersi e riprendere il posto che ha avuto tra i paesi sviluppati. Chiede di essere aiutata ad aiutarci. E’ avvilente che debba “chiedere”. Ancor più che questa “richiesta” rischia di cadere nell’indifferenza, nel silenzio.

(LA VOCE DI NEW YORK)

 

 

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