In Italia quanto conta la sofferenza e la volontà di un malato?

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di Valter Vecellio

La domanda è questa: quanto conta la volontà di un malato quando vive condizioni estreme di sofferenza e dolore perché è affetto da una patologia irreversibile? Si dirò, come si dice, che ognuno di noi ha il diritto di veder rispettata la sua volontà. Sicché se io, malato con una cancrena a una gamba curabile solo con l’amputazione, preferisco a un futuro di zoppo lasciare che avanzi e mi conduca alla morte, ebbene, questa mia volontà, se espressa in scienza e coscienza, ho diritto che sia rispettata. Di più: la legge mi tutela contro chi questo mio diritto, vuole minacciarlo; questa mia facoltà la pregiudica. Solo il malato può valutare se i trattamenti cui viene sottoposti siano proporzionati alla propria condizione e non lesivi della propria dignità di vita. Un principio che dovrebbe valere sia per i laici che per i credenti. Il Vaticano, per esempio, riconosce che nessun paziente può essere obbligato a subire cure che non desidera; e che si può interrompere l’applicazione dei mezzi meccanici quando i risultati deludono le speranze riposte in esse.

E’ opportuno ricordare che sono vicende, storie ingiudicabili: riguardano la sfera privata di ciascuno di noi, e di chi ci vuole bene; dove le leggi non devono costituire “divieti”, ma essere “solo” regole, facoltà. Nell’essenza, la questione  consiste nel diritto di ciascuno di stabilire quando la vita è degna di essere vissuta e quando cessa di esserlo; di quando – per dirla con Leonardo Sciascia – la speranza non è più l’ultima a morire, ma morire diventa l’ultima speranza. Quando la gioia del vivere si trasforma in insopportabile sofferenza, senza scopo, senza rimedio: un lungo, lancinante dolore per chi lo patisce, per chi vuole bene alla persona che di questo dolore è vittima, e non sa che fare, non può fare nulla.

Hanno fatto scalpore, nei mesi e negli anni scorsi, vicende come quelle di Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Eluana Eglaro; e di questi giorni il caso di Fabiano Antoniani, 39 anni, un noto dj italiano, nome d’arte dj Fabo: ragazzo pieno di vita, che un brutto giorno è vittima di un pauroso incidente automobilistico; per sua sfortuna, non muore, nello schianto, sopravvive: ma cieco, e paralizzato; appena può muovere le labbra, la voce è un suono soffiato… Non c’è cura, non c’è speranza. Solo immobilità, dolore, buio. E Fabo a questo punto, con lucidità e pur potendo contare su tutto l’amore e l’affetto che famiglia e amici gli sanno assicurare, decide che così non si può andare avanti. E’ una pena, senza scopo, senza ragione. Meglio, molto meglio mettere la parola fine. Però non può fare come pure hanno fatto registi come Mario Monicelli o Carlo Lizzani, trovare il coraggio di oltrepassare una ringhiera e andarsi a schiantare al suolo dopo un volo di decine di metri. Vorrebbe solo dormire, e nel sonno, morire: il celeberrimo “…To die, to sleep. To sleep, perchance to dream…”.

Un appello al presidente della Repubblica Mattarella, alle istituzioni; in Parlamento si discutono una decina di progetti di legge sul fine vita, il testamento biologico…ma tutto è lento, i tempi del “Palazzo” non sono quelli delle persone normali, e Fabo ha fretta, non vuole più soffrire. Vuole morire. Ha chiesto aiuto all’associazione Luca Coscioni, e il suo tesoriere, Marco Cappato lo aiuta: insieme, a bordo di un’automobile attrezzata, viaggio di cinque ore, vanno oltre Chiasso, in Svizzera: dove ci sono cliniche che verificano che si rientri in determinati protocolli, e una volta effettuati tutti gli esami e tutte le verifiche, ecco sul tavolo un “cocktail” che ti addormenta, e poi, senza dolore, in quell’“altrove” “to die, to sleep. To sleep, perchance to dream…”. Il “cocktail” te lo devi bere da solo, in Svizzera, contrariamente a quel che si crede, non esiste l’eutanasia; là si chiama “suicidio assistito”. Una zuppa che non è l’equivalente del pane bagnato. Intendersi sulle parole è importante: “Eutanasia” è una dolce morte che una mano estranea ti procura. “Suicidio assistito” è creare le condizioni per cui chi vuole, senza soffrire, si può togliere la vita. Fino all’ultimo minuto secondo puoi recedere, tornare sui tuoi passi. Dipende da te. Fabi, che non può muovere un muscolo, chiede una cannuccia; e comincia a succhiare il “cocktail”. “To die, to sleep. To sleep, perchance to dream…”.

L’importanza del lessico, delle parole. Per non fare ulteriore confusione, che tanti sono interessati a sollevare polveroni. I casi citati, Welby, Englaro, Fabo, sono vicende, tra loro diverse. In comune hanno un enorme carico di sofferenza. Ma sono percorsi, storie diverse.

Ricordate papa Karol Wojtyla? Giunto allo stremo, invoca che lo si lasci “tornare alla casa del Padre”; volontà giustamente rispettata. Recentemente un malato di SLA, il veneto Dino Bettamin, ha chiesto di essere profondamente sedato, di non essere più risvegliato; e così, senza più soffrire, è morto. La sua volontà è stata pienamente rispettata, e non poteva che essere così.

Recentemente un malato di SLA, Dino Bettamin, ha chiesto di essere profondamente sedato, di non essere più risvegliato, e infine, senza soffrire, è morto. La sua volontà è stata pienamente rispettata e non poteva che essere così.

Ma già dieci anni fa, per Piergiorgio Welby stremato, si è proceduto a sedazione; successivamente l’anestesista Mario Riccio ha staccato il respiratore che lo teneva in vita meccanicamente, e Piergiorgio ha potuto “liberarsi” senza soffrire.

Il professor Mario Sabatelli, primario del “Gemelli” di Roma, struttura cattolicissima, e cattolico praticante lui pure, ricorda che il rifiuto delle cure non è eutanasia ma “una questione di buona prassi medica. Le leggi e il codice deontologico lo consentono. Anche il Magistero della Chiesa è chiaro: non c’è un diritto di morire ma sicuramente un “diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana”. La decisione, spiega il professor Sabatelli, spetta solo al malato: “Può valutare se la ventilazione meccanica è trattamento proporzionato alla propria condizione e quindi non lesivo della propria dignità di vita. Chi accetta ha diritto ad essere assistito a casa, aiutato dalle istituzioni. Chi rifiuta ha diritto a morire con dignità”.

Questo, insomma, è un punto fermo. Valido anche per Fabo che ha però scelto di chiudere il sipario in una clinica svizzera; forse ha pensato che lì la sua sofferenza sarebbe terminata prima; forse si sarà sentito più “garantito”; forse avrà pensato che in questo modo avrebbe maggiormente “illuminato” una questione di cui si preferisce, nel “Palazzo” non discutere; la si elude, la si ignora.

La questione finora irrisolta, e nella quale si annaspa è quando la volontà non si è più in grado di manifestarla. In questo caso il rischio di essere sottoposti, pur non volendolo, ad accanimento terapeutico è altissimo. In molti paesi, Italia compresa, la legge da questo punto di vista è ancora carente. Occorre che le disposizioni anticipate di trattamento lasciate quando si è in condizioni di farlo siano rispettate quando questa volontà non si può più esprimerla. E’ soprattutto qui, il vuoto legislativo, la grande lacuna da colmare: norme che tengano conto della sofferenza del malato, della sua famiglia; che prevedano adeguata assistenza psicologica e concreta; che tendano a regolare un fenomeno che c’è, e non ci si affidi alla misericordia di un medico, alla mano pietosa di un’infermiera, costretti ad agire in una clandestinità a tutti nota. Beninteso, si sta parlando di un paese, di una comunità animati da autentico spirito laico, rispettoso, civile, con codici improntati non tanto sui divieti, quanto sulle facoltà. Ma qui, purtroppo, si entra in quella che possiamo definire con James M. Barrie “Peter’s Never, Never, NeverLand”.

La Voce di New York 27. 02.2017

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