Intervista a Paola Gassman

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di Giuseppe Stefano Proiti

 

Si è chiuso qualche sera fa, tra scroscianti e prolungati applausi, il sipario di Agropoli, l’ultima tappa della fortunata tournèe “Odio Amleto”. Si aprono sicuramente nuovi interessanti “scenari” per un 2017 da favola, relativamente agli attori che ne hanno fatto parte. Commossi, dichiarano di essersi divertiti ed emozionati molto, apprezzando valori fondamentali come l’amicizia e lo stare tutti assieme, e riscoprendo nel “viaggio”, le bellezze d’Italia … con occhi nuovi. Questa commedia ha rappresentato un importante punto di “snodo” nel mondo dello spettacolo, e non solo, per l’affermazione di questo principio: il tetro, quello vero, svolge una funzione sociale primaria. Il contatto diretto – tipico del teatro – crea una sorta di osmosi, dunque interattività, intimità, umanità … concetti tutti utili per affrontare ogni difficoltà nella quotidianità.
E come il vigile o l’ingegnere che va a fare il sopralluogo, Giuseppe Proiti, tra una pausa e l’altra “dietro il sipario”, si è fatto carico di cerziorare questo “gradiente di umanità”, con un pilastro del teatro italiano: Paola Gassman.

Buonasera signora Gassmann, ci troviamo in Sicilia, e come ben sa, tradizione vuole, che l’Opera dei Pupi Siciliani, rappresenti  l’Orlando Furioso. Le ricorda qualcosa?

Si, l’Orlando Furioso mi ricorda innanzitutto la giovinezza. Presi parte a quel famoso spettacolo di Luca Ronconi, e con quello siamo stati “in ballo” per tre anni, fra l’Italia tutta, l’Europa, l’America (New York) e poi lo spettacolo televisivo che ne susseguì. Debbo però però affermare che non aveva niente a che fare con quello teatrale che era molto più festoso, giovane, pieno di “umanità”, che sprizzava in quegli attori che poi sono diventati l’ossatura del teatro italiano. Quindi insomma … bei ricordi …

Lei ha dedicato la sua carriera quasi interamente al teatro, mettendo in scena molti spettacoli: dal genere drammatico, a quello comico e brillante. C’è un genere teatrale che predilige in particolare?

Credo che un attore, in quanto tale, debba cimentarsi un po’ in tutti i generi, e poi via via c’è lo spettacolo che riesce meglio, quello che, ahimè, viene peggio. Il comico ti da una soddisfazione immediata perché vedi il risultato subito, se porti il pubblico dalla tua parte facendolo ridere. Con il drammatico senti la tensione, ma non avverti in realtà il contatto con il pubblico. Poi però arriva l’applauso, che … come dire … ti fa sentire di nuovo “terrena”, dando un suggello e una testimonianza tangibile alla tua arte. Io personalmente amo sia il comico, sia la tragedia greca (che ho portato anche nei teatri più belli della Sicilia, come quelli di Taormina, Siracusa, Segesta, Selinunte … sono tutti spettacoli che abitano nel mio cuore). Per cui amo uno spettacolo più di un altro. Uno lo sento più riuscito di un altro, però nella vita bisogna provare a fare tutto.

“Sogno di una notte di mezza estate” e “Odio Amleto”, Shakespeare cosa le ha lasciato?

Mi ha lasciato in primo luogo l’ebbrezza del sogno e dell’amore, come quello di una “fanciullina”. Ho iniziato la mia carriera con Shakespeare. La bellezza dell’amore di un uomo verso una donna e delle piccole cose, con questa frase: “La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore ma dal lato, per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata”. 

(WIlliam Shakespeare)

Per quanto riguarda “Sogno di una notte di mezza estate”, feci questo saggio dell’Accademia “Silvio D’amico” con la regia di Orazio Costa. Ed è stato uno spettacolo che ancora ricordano. Perché prima di quello di Peter Brook (ambientato in una palestra, dove eravamo tutti giovani, belli e aitanti) io facevo Elena in quel caso, una delle due innamorate. Quindi da subito ho avuto un bella “ventata di respiro”, grazie a questo autore mondiale. Poi l’ho ripreso molti anni dopo anni con la regia di Bolognini, insieme a Ugo Pagliai e facevo Titania. Qui in Sicilia invece, sempre con la regia di Costa, ho interpretato anche il bel “Mercante di Venezia”. Poi non ho fatto più altro di Shakespeare, e mi dispiace, perché in realtà c’erano altri favolosi personaggi che avrei amato fare. Ma non sempre tutto si può fare, e bisogna anche considerare il fatto che Shakespeare ha troppi personaggi, per cui un teatro privato non se lo può facilmente permettere. Quindi non mi è capitata più l’occasione, però queste tre esperienze sono sicuramente un bagaglio ricchissimo che mi porto dietro.

A proposito di “cose” che ci portiamo dietro: “Una grande famiglia dietro le spalle”, qual’è il ricordo più bello che ha di suo padre?

Questo libro prende il titolo da quello di mio padre: “Un grande avvenire dietro le spalle”. In realtà non ce n’è una in particolare, c’è semplicemente mio padre! Lui si distingueva e lasciava il segno in ogni cosa che faceva. Quindi credo che non si può fare una scelta. Sicuramente c’è il padre, e c’è l’attore. Il vantaggio di fare il suo stesso mestiere è stato quello che l’ho avuto come amico, come collega, e buon consigliere. Tantissime cose belle che chiaramente ti mancano … papà Vittorio, mi manchi!

Negli ultimi anni lei assieme a suo marito, si cimenta anche nell’arte poetica. Cos’è per lei poesia?

Poesia è soprattutto quella vera. Perché uno può dire: “questa è anche poesia”. Rimane il fatto che ci sono degli autori immortali che hanno saputo veramente interpretare la vita mediante quella che possiamo definire come la “madre” di tutte le arti. Noi spesso, sia insieme, sia singolarmente, lo facciamo insieme alla musica. Credo che la poesia è un linguaggio senza confine … che ha scavalcato il “recinto”, dunque, perché non rafforzarlo dandogli le “ali” della musica e farlo volare nell’ Infinito? Personalmente, nei percorsi poetici che organizzo, porto sempre dei musicisti. Sono stata spesso in giro con uno spettacolo che si chiama “Donna abitata da memoria”, che ha preso il titolo da una poesia di Carmen Yanez, dove, appunto, si esplora un po’ l’universo femminile, e si descrive la vita della donna, attraverso il palpito dei suoi sentimenti, attraverso le sue esperienze. Insomma, la poesia arriva molto facilmente al pubblico. Con la sua intensità va all’osso delle situazioni, e si può efficacemente considerare un bel “riassunto della vita”!

A un certo punto, durante lo spettacolo, lei mi ha sorpreso con queste parole: “Amleto, un terribile donnaiolo, si, ma mai una bestia”. Questo riferimento al lato “sentimentale” del Don Giovanni è anch’esso utile all’uomo?

Si, perché esprime l’ostinata ricerca della Verità. Ti rispondo più compiutamente con questa citazione tratta dal romanzo più celebre di Milan Kundera, ovvero “L’insostenibile leggerezza dell’essere”:

“I donnaioli possono facilmente essere distinti in due categorie. Gli uni, che cercano in tutte le donne la donna dei loro sogni, un’idea soggettiva e sempre uguale. Gli altri, che sono mossi dal desiderio di impadronirsi dell’infinita varietà del mondo femminile oggettivo.

L’ossessione dei primi è “lirica”: nelle donne essi cercano se stessi, il proprio ideale, e sono sempre                   e continuamente delusi perché l’ideale, com’è noto, è ciò che non è mai possibile trovare. Poiché la delusione che li spinge da una donna all’altra dà alla loro incostanza una sorta di scusa romantica, molte donne sentimentali sono commosse dalla loro ostinata poligamia.
Il donnaiolo lirico insegue sempre lo stesso “tipo di donna”, nessuno si accorge che egli cambia amante; gli amici gli causano continui malintesi, perché non sono capaci di distinguere le sue amiche e le chiamano tutte con lo stesso nome.

L’altra ossessione è un’ossessione “epica”, e in essa le donne non trovano nulla di commovente: l’uomo non proietta sulle donne alcun ideale soggettivo, perciò ogni cosa lo interessa e nulla può deluderlo. E proprio questa incapacità di rimanere delusi ha in sé qualcosa di scandaloso. Agli occhi della gente, l’ossessione del donnaiolo epico appare senza riscatto (senza il riscatto della delusione).
“I donnaioli epici”si allontanano sempre più dalla bellezza femminile, e finiscono irrimediabilmente per diventare dei collezionisti di curiosità. Essi se ne rendono conto, ne provano vergogna, e non si mostrano in pubblico con le loro amanti”.

Se hai seguito attentamente il discorso, i “donnaioli epici” non hanno nulla di nuovo da scoprire nel mondo, sono semplicemente un “oggetto” che cerca un altro “oggetto”, per soddisfare il loro bisogno. Sono dei portatori di egoismo puro, dunque per questo tendono a celare.

Va da sé che il “donnaiolo lirico” è un portatore sano di romanticismo, di un messaggio d’amore più che mai potente, originale, autentico … come la poesia. Ricorda: chi è vero, non ha mai niente da nascondere. Ti lascio … buona fortuna!

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