Leggi e regole: gli insegnamenti di Leonardo Sciascia

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Sciascia pose un problema essenziale: non si può derogare dal diritto; e non si può piegare una legge alla contingente convenienza. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; fin quando non si cambiano, si applicano. Intanto Francesco Forgione, con i “I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti” conferma quanto avesse ragione lui


di Valter Vecellio

Andrò, spero tra non molto, a Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia; su quella tomba bianca sulla destra quando si entra, voglio deporre un fiore; e dirgli là, quel “grazie” che ogni giorno gli dico: ogni volta che leggo e rileggo una sua pagina, non importa se Gli zii di Sicilia o La scomparsa di Majorana, Dalle parti degli infedeli o Morte dell’Inquisitore.

“Grazie” per averci insegnato che si può e si deve battere la mafia detta ‘Cosa Nostra’ e le altre organizzazioni criminali organizzate puntando “…sull’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…”.

“Grazie” per aver accettato il ruolo scomodo e pesante del “pesce volante”: quando “vola” in aria lo beccano gli uccelli; quando nuota sott’acqua è preda di pesci più grandi e voraci. Per aver denunciato la mafia, le mafie; e al tempo stesso la ‘mafiosità’ di certa antimafia, ed esser diventato bersaglio dei loro fulmini.

So per certo che quella polemica, uscito l’articolo redazionalmente titolato “I profesleonardo-sciasciasionisti dell’antimafia” lo ha ferito in modo particolare; quell’insulto scagliato con violenza e protervia: “quaquaraquà”; quel non voler capire che Sciascia pone un problema essenziale, che ancora oggi ci si deve porre. L’essenza di quell’articolo è che non si può derogare dal diritto; e che non si può piegare una legge, una norma a seconda della contingente convenienza: se quella legge o quella norma sono sbagliate o inefficaci, non le si può aggirare, magari pensando di usarle in altra, conveniente, occasione. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; fin quando non si cambiano, si applicano. Non può essere che si deroghi da quanto prevede una norma se si tratta di Paolo Borsellino, è poi bellamente la si utilizza per impedire a Giovanni Falcone di ricoprire quell’incarico, a palazzo di Giustizia di Palermo, che certamente avrebbe ricoperto in maniera eccellente.

Recensendo, in quell’articolo, un bel libro dello storico inglese Christopher Duggan sulla mafia negli anni del fascismo, Sciascia ammonisce che l’antimafia, facilmente, si poteva trasformare in strumento di potere; e lo può benissimo diventare anche in un sistema democratico, “retorica aiutando, e spirito critico mancando”.

Dico “grazie” a Sciascia per quell’allarme. Più che fondato, se penso che proprio in queste ore ho potuto leggere le circostanziate, precise motivazioni della sentenza di assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, accusato in abbreviato per minaccia a corpo politico dello Stato in una delle non so ormai neppure quante tanche del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. So bene che Mannino è persona che dovrebbe prestare maggiore attenzione quando fa il testimone di nozze; so bene che lo ha fatto per quel Gerlando Caruana figlio di Leonardo, ucciso nel 1981 a Palermo, dopo la cerimonia dell’altro figlio Gaspare. So bene che si è difeso sostenendo di non sapere chi si sposava; cosicché può scegliere: o è cretino; o vuole farci passare noi, per cretini. Ma questa fattispecie di reato ancora non è contemplata nei codici, che altrimenti in pochi scamperebbero.

Al di là di questa discutibile e discussa partecipazione matrimoniale, Mannino per la storia della cosiddetta “trattativa” è stato assolto il 3 novembre del 2015; e le motivazioni sono arrivate dopo undici mesi. Il Giudice per l’Udienza Preliminare Marina Petruzzella letteralmente fa a pezzi l’inchiesta condotta dall’ex pubblico ministero Antonio Ingroia, dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi, dal sostituto procuratore Francesco Del Bene, dai procuratori Nino De Matteo e Roberto Tartaglia. Con un doppio risultato, doppiamente dannoso: perché da una parte si dà corpo a una “trattativa” fantastica, fatta di “papelli” e raccontata da personaggi più che discutibili come il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino; dall’altra ci si “distrae” dalle vere complicità e commistioni, che ci sono state, e tuttora ci sono. Dando credito all’incredibile, come si è finora fatto,  si rende incredibile il vero. Doppio risultato che fa comodo a molti, e certo chi l’ha nei fatti posto in essere neppure si rende conto di quello che fa e ha fatto. E’ insomma un certo modo ideologico e “militante” di amministrare la giustizia che porta inevitabilmente ai risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere.

La lettura della sentenza del GUP Petruzzella va fatta in parallelo a quella di un recentissimo libro scritto dall’ex presidente della commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti. Per capire di cosa si tratta, basti un brano della prefazione scritta da un insospettabile, l’ex magistrato Giuseppe Di Lello, a suo tempo, stretto collaboratore di Giovanni Falcone nel pool antimafia: “…Lo scopo dichiarato del libro di Forgione è analizzare i motivi profondi di una svolta rovinosa, individuando tutti i pericoli di un’antimafia opportunista e di facciata. Siamo infatti in una fase in cui tutto appare confuso e, per le tante ambiguità di molti protagonisti di vicende che interessano la lotta alla mafia, sembra difficile capire dove si situa il confine tra un’azione di contrasto seria ed efficace e comportamenti che, con il paravento dell’antimafia, sconfinano a volte nell’illiceità o quantomeno nel malcostume…”.

i-tragediatoriVa giù a colpi di maglio, Forgione: “L’antimafia dei tragediatori è scoperta. E’ finita. Chi sono, da dove vengono e perché stanno crollando le icone e i ‘miti’ dell’antimafia… Imprenditori, giornalisti, magistrati, associazioni, sono travolti da inchieste giudiziarie e dalla questione morale. Hanno costruito carriere, accumulato potere, fatto affari. Nei salotti televisivi e sui giornali erano i nuovi eroi, Sempre pronti a dividere il mondo tra buoni e cattivi, puliti e collusi. Per anni sono stati intoccabili: o con loro, o con la mafia. Una trasfigurazione della realtà nella quale si perde il confine tra mafia e antimafia. E’ una storia che viene da lontano con risvolti politici e sociali…”.

Ognuna delle 120 pagine del libro di Forgione è una conferma di quel monito contenuto in quell’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Nella montagna di ritagli che ingombrano il mio tavolo di lavoro, uno del 7 aprile di quest’anno, è un editoriale in prima pagina del Corriere della Sera di Paolo Mieli. Comincia così: “Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia…”; e via così, per tre-quattromila parole.

Per questo andrò a Racalmuto, a deporre quel fiore, e dire a Leonardo: “Grazie”. Come ora, penserò: “Come ci manca il tuo saper dire, il tuo saper vedere, il tuo saper capire”.

La Voce di New York, 3 novembre

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