Una storia di antifascismo reale

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di Valter Vecellio

 

Giuseppe Antonio Borgese: nome che a molti dirà pochissimo, forse nulla; e si capisce: la memoria è un esercizio difficile, e in particolare di questi tempi profeticamente scolpiti nei versi del poeta francese René Char: “Le temps desmonts enragés / et de l’amitié fantastique”.

Guido Piovene (Ahi! Ecco un altro “dimenticato”; chi può si procuri “Le lettere di una novizia”; e quella splendida rappresentazione del nostro paese che è “Viaggio in Italia”), racconta che “le sue critiche letterarie in un giornale milanese (“Il Corriere della Sera”, ndr), dettavano legge. Le sue lezioni alle undici del mattino riunivano, oltre agli studenti, tutta una parte della borghesia milanese che teneva a mostrarsi colta. Oltre che ottime lezioni, anche senza volerlo, Borgese dava un vivace spettacolo d’arte oratoria e mimica. Tuttavia, non si mondanizzò mai”.

Siciliano di Polizzi Generosa, classe 1882, Borgese ha poco più di trent’anni e già insegna all’università, conosce le lingue, svolge attività giornalistica, scrive saggi corposi critici. “Intelligenza sfolgorante”, ricorda Piovene: “Era uno degli uomini di cui tutti parlavano, magari anche per farne la caricatura, alcuni in modo affettuoso, altri acre”.

Fino al 1930: il 23 gennaio di quell’anno all’assemblea generale del GUF lo bolla come “elemento infido”. Di lì a pochi giorni l’aggressione nell’aula di università dove tiene lezione, studenti fascisti ingaggiano una gazzarra, insulti, spintoni, per un soffio non accade il peggio. E’ la prima volta che i fascistiattentano alla libertà di insegnamento; l’aggressione suscita una eco tale che lo stesso Mussolini, preoccupato, sente il bisogno di intervenire; al prefetto di Milano telegrafa: “Il professor Borgese deve riprendere sue lezioni all’Università. Esigo che ciò avvenga senza minimo incidente. Lo faccia sapere al segretario federale e al segretario del GUF e nelle eventualità di incidenti prenda misure contro i responsabili. Mussolini”.

  Mussolini teme Borgese. Preferisce che non gli si dia fastidio. Ma Borgese col fascismo non scende a patti. Il 1931 è l’anno della svolta. Nel luglio di quell’anno si imbarca per gli Stati Uniti, invitato dall’università di Berkeley a tenere lezioni come “professore in visita”. Un mese dopo il regime impone il giuramento di fedeltà ai professori universitari del Regno. Sono 1.251 gli Accademici, quasi tutti accettano il “giogo”, giurano (e giurarono, tra gli altri Piero Calamandrei, Guico Calogero, Luigi Einaudi, Adolfo Omodeo, Concetto Marchesi; seguendo le indicazioni di Togliatti da una parte, di Croce dall’altra, “per poter così continuare a svolgere un’opera estremamente utile per la causa dell’antifascismo” da “dentro”). Pochissimi tengono alta la bandiera della liberetà e dell’indipendenza della cultura, e dicono: “NO, io non giuro”. Pochi, possiamo citarli tutti: Francesco ed Edoardo Ruffini; Fabio Luzzatto, Giorgio Levi Della Vida, Gaetano De Sanctis, Ernesto Buonaiuti, Vito Volterra, Bartolo Nigrisoli, Mario Carrara, Lionello Venturi, Giorgio Errera, Pietro Martinetti…Quanti sono? Dodici, si dice sempre; che pagheranno ben caro quel loro NO, con il licenziamento immediato, e persecuzioni. A quei dodici, si aggiungeranno poi Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini e Silvio Trentini, che lasciano volontariamente l’università nel 25-26, alle prime avvisaglie di quel che poi avviene nel ’31; altri due, Vittorio Emanuele Orlando e Piero Sraffa, chiedono il pensionamento anticipato…Ma i dodici non sono dodici: sono tredici, perché anche Borgese non giura; anche se pochi se lo ricordano. Chissà perché di Borgese ci si dimentica sempre; eppure dagli Stati Uniti dove si trova, invia un memoriale e due lettere a Mussolini, dove annuncia che non giura, non giurerà; e non tornerà in Italia. Documenti resi pubblici a Parigi nei “Quaderni di Giustizia e Libertà”, e finita la guerra dalla rivista “Il Ponte” di Piero Calamandrei. Una posizione, quella di Borgese, inequivocabile; e infatti quando nel 1937 il presidente dell’Istituto Luce, marchese Paolucci de Calboli trasmette a Mussolini una dignitosissima lettera della moglie di Borgese, Maria, che rimasta in Italia chiede di poter ottenere la pensione che le viene negata, perché il marito è stato destituito,  il Duce risponde con un appunto autografo: “Gli si poteva perdonare il passato, ma non l’oggi. Continua ad essere un nemico”.

Una parabola molto ben raccontata un libretto esile solo all’apparenza, “Borgese e il fascismo”, di Fernando Mezzetti (Sellerio editore). Uno scrittore molto amato da Leonardo Sciascia, che a Borgese dedica il 113esimo volumetto di quella bella collana che è “La Memoria”, sempre della Sellerio: “Per un ritratto dello scrittore da giovane”.

  Nel 1938 Borgese ottiene la cittadinanza americana e, l’anno dopo, ottenuto il divorzio dalla prima moglie Maria, sposa la figlia di Thomas Mann, Elisabeth.Nel 1939 insieme a Gaetano Salvemini e altri antifascisti italiani, fonda la “Mazzini Society”, che ha per scopo far conoscere in America le condizioni dell’Italia e fornire un aiuto agli esuli. In quegli anni vede la luce uno dei testi più significativi di Borgese: “Goliath, The march of Fascism”una vera e propria “indagine” sulle ragioni e le caratteristiche del fascismo italiano spiegato agli americani. Investe inoltre gran parte delle sue energie intellettuali in un progetto visionario, perseguito con tenacia anche a livello organizzativo, quello di un “Governo mondiale”: un modello di governo radicalmente unitario, oltre i particolarismi di ordine sociale, religiosi, culturali, economici, politici, centrato sull’individuazione di una serie di valori universali o universalmente condivisibili. Insieme a Richard McKeon èpromotore dell’attività del “Committee to Frame a World Constitution”, di cui ricopre la carica di segretario, accogliendo l’idea lanciata dal rettore dell’Università di Chicago Robert M. Hutchins, e cioè la necessità di un governo mondiale, dopo le ferite inferte nelle coscienze dal secondo conflitto mondiale, e le preoccupazioni per la situazione internazionale in seguito all’esplosione delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

L’arte, la pre/veggenza di Borgese erano ben chiare a Sciascia, che il 20 febbraio 1965, su “L’Ora”, annota: “…Due soli scrittori, mi pare, hanno giudicato il fascismo al suo primo apparire per quel che effettivamente era: Hemingway e Borgese. Dico solo due scrittori non tenendo conto di coloro che, più impegnati nel pensiero e nell’atto politico, subito ne avevano avvertito la pericolosità: Gramsci, Gobetti, Salvemini…”; e in particolare, parlando di “Rubè” (secondo Piovene “il primo romanzo di alta qualità scritto in Italia dopo la grande guerra”), Sciascia osserva che “…caricando dei significati e simboli della storia in atto, Borgese perdeva un po’ di vista l’unità, la coerenza, la vitalità del personaggio; e forse non se ne curava, poiché più, credo, gli importava esprimere la crisi della società italiana…Dall’improbabile e ambigua esistenza del personaggio Rubè nasceranno più tardi dei personaggi veri e propri: gli indifferenti di Moravia, da un lato; i gerarchi fascisti, gli innamorati e i don giovanni, i costruttori di torri, gli antifascisti della penultima ora di Brancati, dall’altro. Non per niente Borgese è stato il primo critico italiano a riconoscere l’importanza degli “Indifferenti” di Moravia; e non è senza significato che alla sua diretta influenza si debba la conversione di Brancati all’antifascismo”.

Un’influenza che Brancati comincia ad assorbire fin dagli anni ’30. L’8 luglio del 1933, Borgese gli spiega perché non può assolutamente aderire al regime fascista: “…Io fui nella mia verde gioventù dannunziano diciotto mesi, e nonortodossamente, crociano, si e no, tre mesi; nemmeno nei momenti di misticismo più sentimentale, a cui accresceva attrattiva la nostalgia della patria in paesi protestanti, seppi decidermi alla comunione; non fui mai socialista o massone. Qualunque cosa valga la mia vita, essa è stata testimonianza di dignità e di ragione…Non credo degno della destinazione umana esprimere un pensiero falso o mutilato…”.

Il 13 settembre del 1949 Borgese riprende possesso della sua cattedra di Estetica all’università di Milano, con una prolusione tenuta nel salone d’onore al Collegio reale delle fanciulle (l’università, a causa dei bombardamenti subiti ancora non ha una sede propria). Il tema è “Goethe e l’Unità del mondo”, e l’incipit è costituito dal commosso ricordo di uno dei suoi allievi caduti combattendo contro i tedeschi, Eugenio Colorni; quel Colorni che per proteggere Borgese aggredito dai fascisti durante la lezione universitaria di cui s’è detto, esce dalla rissa con il naso sanguinante. Lui e Piovene.

Gandolfo Librizzi, instancabile animatore della Fondazione Borgese, nel suo prezioso “No, io non giuro” (Navarra editore), ripercorre con partecipata attenzione e cura devota il percorso di questo intellettuale che a una cosa, aspira: “per quando sia morto, a una lode: che in nessuna mia pagina è fatta propaganda per un sentimento abietto o malvagio”.

Librizzi fa suo il giudizio di Sciascia che spiega il tetragono (e immeritato) ostracismo nei confronti di Borgese come conseguenza logica “nel trionfante antifascismo che dal fascismo, dall’eterno fascismo italiano, sembrò ricevere certe consegne”. Borgese “già ai suoi esordi era stato crocianamentedisprezzato per esser stato un critico-giornalista…pagò poi le conseguenze del suo esilio con il risentimento degli intellettuali che nella stragrande maggioranza erano restati in Italia, e avevano contribuito al trionfo permanente del fascismo”. Così, sottolinea Librizzi, “in sostanza, ciò che agli altri sembra essere perdonato a Borgese no, a lui non si fa nessuno sconto…”.

Aveva, ha, effettivamente tante cose da farsi perdonare, Borgese; e se ne prenda una, datata 14 ottobre 1934, e che si ricava dai “Diari”, ancora inediti, e solo in piccola parte anticipati dal “No, io non giuro”: “…In politica io credo nell’unione concorde dell’Europa (sarà magari possibile fra duecent’anni, ma chi ci crede lo deve dire fin da ora), e in ciascun paese credo nella libertà, almeno in quel tanto di libertà senza cui non vi può essere né giustizia né intelligenza…”.

Vogliamo dirlo? Un programma, una “visione” prettamente radicale, da intendere come aggettivo e come sostantivo: quel radicalismo che era di Gaetano Salvemini, di Antonio De Viti De Marco, dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, di Ernesto Rossi e Mario Pannunzio; di Ignazio Silone e Altiero Spinelli, Guido Calogero e Aldo Capitini; e con loro gli Elio Vittorini, i Pier Paolo Pasolini, i Leonardo Sciascia; e tutti li unisce, fino al non meno ostracizzato Marco Pannella. Doveva per forza pagarla da vivo, Borgese, come pagò; e anche da morto. Chiosa Piovene: “Giacomo Leopardi, che vedeva più chiaro di tutti, sapeva che l’aver vissuto contro il proprio tempo si paga anche dopo la morte, per quanto i retori pensino diversamente…Borgese pagava sempre più degli altri. V’era in lui un’ambizione che tendeva al frenetico, ma aperta, candida, palese; proprio il genere di ambizione che invita la gente a ferire con gusto, con sadismo, perché può farlo facilmente mantenendo la propria vittima in uno stato d’ansia e di sofferenza perpetua”. Si spiega così, in parte almeno, perché ancora oggi continuano a essere “dodici” i professori che dissero: “NO, io non giuro”. Anche se a dire quel NO furono in tredici.        

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