In Egitto caos e morte, mentre in Sicilia sbarcano ancora migranti

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Di Salvo Barbagallo

In Egitto è caos e morte. Egitto, un Paese amico a due passi da casa nostra, che era ed è meta turistica preferita dagli italiani, ora è zona di guerra civile. La Farnesina consiglia solo viaggi sul Mar Rosso, e per chi già si trova in quel territorio (in quindicimila, al momento, per le vacanze di Ferragosto) suggerisce di soggiornare nei resort ed evitare le escursioni. Anche l’ambasciatore italiano è stato richiamato in Patria. Gli esperti che commentano la situazione sulla stampa internazionale sono concordi nel sostenere che “L’Egitto rischia di sprofondare nella sanguinosa deriva algerina degli anni Novanta, quando i militari cancellarono la vittoria islamica alle elezioni scatenando una paurosa guerra civile che è costata 150 mila morti”.

Per la morte dei sei clandestini, annegati a quindici metri dalla battigia della Playa, mercoledì vigilia di Ferragosto, il sindaco di Catania Enzo Bianco ha proclamato il lutto: quei giovani provenivano dall’Egitto. Il lutto mondiale dovrebbe essere proclamato anche per i morti in questa e in tutte le rivolte.

Anche nel giorno di Ferragosto, altri migranti sono finiti sulle spiagge della Sicilia: un gruppo di bagnanti sulla spiaggia di Morghella, a Pachino, ha aiutato la Guardia Costiera a trarre in salvo 160 clandestini, fra di loro donne in stato di gravidanza e una cinquantina di bambini. La segnalazione è stata effettuata da un bagnante che ha avvisato la Guardia costiera della presenza di un barcone a pochi metri dalla riva. I bagnanti hanno formato una catena umana e collaborato fattivamente alle operazioni di soccorso. Anche questi clandestini provengono dall’Egitto?

Si fugge da un Paese dove non c’è pace, ma non basta, allorché accadono eventi come quelli che stanno scuotendo la capitale egiziana, decretare l’embargo delle armi come ha fatto l’Italia. Fin quando si producono armi si fomentano guerre, ma questa è una storia che i Paesi produttori di armi non vogliono sentire, ne risentirebbe tutta un’economia.
Perché solo adesso atterriscono gli episodi di violenza che si stanno verificando in Egitto?

Già diversi Paesi dell’area del Mediterraneo, regioni del Medio Oriente e del vicino Oriente negli ultimi tre anni sono stati protagonisti di ribaltamenti che possono considerarsi epocali, qualunque sia stata la loro reale natura. Quanto è accaduto è stato retoricamente definito la “Primavera araba”. Proteste ed agitazioni, cominciate alcune durante l’inverno 2010/2011, hanno cancellato governi ritenuti dittatoriali, altri tentativi sono tuttora in corso: i Paesi maggiormente coinvolti dalle sommosse sono stati l’Algeria, la Tunisia, il Bahrein, l’Egitto, la Libia, lo Yemen, la Giordania, il Gibuti e la Siria. Queste “rivoluzioni” in Occidente sono state definite “Primavera araba”, ma nei luoghi interessati tale definizione non è conosciuta, né “riconosciuta”: per coloro che hanno vissuto quegli avvenimenti si è trattato di “rivolte”. Le cause “scatenanti”? La corruzione, l’assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani e le condizioni di vita molto dure, fattori che sino ad ora, a fatti conclusi o in evoluzione, sono rimasti pressoché eguali. L’area del “mutamento” è ancora in forte fibrillazione, lontano un assestamento di pace, lontanissimo un equilibrio socio-economico. Il risultato concreto delle ribellioni: quattro capi di Stato sono stati costretti alle dimissioni o alla fuga. In Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali il 14 gennaio 2011, in Egitto Hosni Mubarak l’11 febbraio 2011 e poi recentemente Morsi, in Libia Muammar Gheddafi che, catturato, è stato ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011 e in Yemen Ali Abdullah Saleh il 27 febbraio 2012. Ma oggi, tirando le somme, il consuntivo più appariscente della cosiddetta “Primavera araba” è una instabilità che si allarga ad “effetto domino” e che nel percorso genera nuove incognite per il futuro. Nessuna aspirazione dei manifestanti è stata presa in minima considerazione e alle dittature si sono sostituite oligarchie, spesso venate da un fanatismo religioso che lascia ben poco sperare in un futuro di progresso per quei popoli.
E ciò che accade in Siria? C’è chi sostiene che in quello Stato si combatta la “prima guerra mondiale locale perché vi sono coinvolte le massime potenze planetarie e regionali”. Infatti, a dare man forte ai ribelli contro il regime di Bassar al-Assad ci stanno Stati Uniti d’America, Gran Bretagna e Francia, fronteggiati da Russia e Cina. Anti Assad sono Turchia, Arabia Saudita, Qatar, a favore Iran e Hezbollah libanesi. Una situazione incandescente sempre sull’orlo di una deflagrazione, alla fine poco controllabile dagli stessi soggetti coinvolti.

Si illude chi ritiene ancora che dalla “Primavera araba” potranno “germogliare cento rose democratiche”. La destabilizzazione, quale che sia il finale e come si è potuto notare dagli sconvolgimenti già avvenuti, porterà soltanto a una redistribuzione del potere a favore di nuovi leader che creeranno nuove alleanze o rafforzeranno quelle esistenti, a seconda di come si chiuderà il conflitto. I “vincitori” saranno sempre gli stessi, in prima persona o in delega.

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